Articoli e Interventi >> La Calabria Post-Unitaria. Il Brigantaggio, la Povertà e le Grandi Ondate Migratorie
 
VINCENZO FALCONE
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La Calabria Post-Unitaria
 
                Il Brigantaggio, la Povertà e le Grandi Ondate Migratorie           


Novembre 2015
 

1)   Il  Brigantaggio
 
Sul tema del brigantaggio meridionale, e calabrese in particolare, esiste una letteratura talmente vasta che non pretendiamo, in questa sede, di essere esaustivi sull’argomento.
Ci proponiamo, piuttosto, di esporre qualche notizia informativa, senza alcuna pretesa di nuove scoperte storiografiche, se si eccettua qualche documento dell’epoca, che ci sembra significativo e illuminante sulla mentalità e sul modo di agire di quelli che furono comunemente definiti “briganti”.
Per poter dare una data di inizio al fenomeno del Brigantaggio in Calabria, bisogna risalire alla metà del 1500, ai tempi dell’imperatore Carlo V, quando, in particolare, le angherie dei feudali e le tassazioni cominciarono a rendere quasi impossibile la vita delle masse popolari, all’interno delle quali cominciarono a nascere bande armate che, pur saccheggiando  casali e centri abitati, non erano, comunque, malviste dalle popolazioni locali, in quanto esse colpivano, in maggiore misura, i ricchi baroni o i proprietari terrieri (ma non quelli più potenti), allo scopo di  vendicare le ingiustizie sociali perpetrate nei confronti della povera gente.
Il brigantaggio divenne uno dei problemi più gravi  per i governanti dell’epoca,  che durò almeno 400 anni (praticamente fino alla fine del 1800) e giocò  ruoli diversi a seconda del tipo di iniziative che intraprendevano gli stessi briganti, oppure in funzione  delle alleanze che essi riuscivano a creare con i protagonisti delle lotte per il potere.
Il brigantaggio meridionale in generale, caratterizzato da  metodi quasi identici  a quelli della delinquenza comune, fu spesso ritenuto causa di  malessere sociale e di disagi economici di grande portata che, inevitabilmente, coinvolsero  le popolazioni civili interessate dai territori di riferimento, allorquando i governanti, nel periodo napoleonico, o lo Stato, nel periodo postunitario, intervennero  per combattere, in modo più o meno cruento, le diffuse  sacche di criminalità.
La Calabria è stata, in particolare nel XIX secolo,  una delle maggiori ribalte del brigantaggio italiano.
In effetti, il brigantaggio, nell’Ottocento, ebbe diverse impronte: ci furono cicli di aggregazione di bande con ispirazione politico-sociale, altre fasi in cui prevalse il movente criminale e mafioso, e perfino qualche momento in cui si parlò di "brigantaggio romantico".
In ripetute occasioni, ad alimentare il clima di aggressività furono, come al solito, i Borboni.
Basta ricordare il coinvolgimento di alcuni briganti nel 1799, durante  la spedizione sanfedista del cardinale Fabrizio Ruffo per reprimere, nel Mezzogiorno, il «caos giacobino» della conquista francese e a rimettere sul trono di Napoli proprio la dinastia borbonica.
Il brigantaggio, in questi casi, assume carattere politico, alleandosi con i più potenti, ricattando piccoli baroni e proprietari e rispettando, in generale, la povera gente che garantiva loro nascondiglio e copertura.
Assistiamo, quindi, non solo alla connivenza dei baroni con i briganti, ma anche alla  “abilitazione”di questi ultimi al rango di borghesi liberi e ricchi e di comandanti militari.
Dopo il 1860, nacque la categoria dei “briganti-guerriglieri” che scendevano in campo contro l’unità d’Italia presentata come «usurpazione piemontese».
Il brigante, in molti casi, era visto dalle masse popolari come un “giustiziere”: vendicatore di secolari soprusi, altre volte, come  unica alternativa al Governo, o allo Stato; poche volte come criminale da isolare.
Infatti, sia durante il decennio napoleonico che subito dopo l’Unità d’Italia, la grande difficoltà incontrata dallo Stato, nel combattere il brigantaggio, era la connivenza e l’omertà della gente che proteggeva il brigante o che, comunque, difficilmente lo tradiva.
Un’omertà così fortemente  radicata nella popolazione  si ripropone, ancora oggi, con riferimento alla criminalità organizzata.
A creare situazioni anomale ha contribuito, in qualche modo, la  stessa conformazione geografica  che, se da un lato,  ha fatto di questa estremità della penisola una via terrestre di comunicazioni essenziale tra il resto del Mezzogiorno continentale e  la Sicilia,  dall’altro  ne ha fatto  una regione remota, con una natura splendida ma impervia.
Il teologo e giurista tedesco Johann Heinrich Bartels, che fu anche borgomastro di Amburgo, rilevò con sgomento che “le informazioni che Napoli riceve dalla Calabria sono identiche a quelle che la Spagna un tempo riceveva dall’America”.
Egli era convinto che doveva esserci qualche interesse occulto all’origine di una disinformazione così incomprensibile.
Nei loro resoconti, i visitatori europei sottolineavano la contraddizione tra il forte senso d’ospitalità dei calabresi e l’estrema fertilità delle campagne, contrapposti alla povertà dei contadini e al quasi totale analfabetismo.
Secondo i fratelli Fouchier, ad esempio, tale situazione di arretratezza era dovuta agli onnipotenti baroni, proprietari di latifondi immensi, i quali erano convinti  di mantenere il  loro potere, se i contadini non si fossero emancipati e se il loro tenore di vita fosse stato limitato alla  stretta sopravvivenza.
Sulla ribalta della Calabria, allora, si mossero vivacemente anche mestatori internazionali, quali lo spagnolo José Borges che sbarcò sul litorale ionico come agente sobillatore di istanze reazionarie e come reclutatore di «cafoni armati».
Poiché questa non è la sede per approfondire tutte le questioni legate al brigantaggio, limitiamo le nostre riflessioni al periodo post-unitario ed a quello post-fascista, sottolineando il fatto  che sia il Regno d’Italia che i primi governi repubblicani non riuscirono a trovare le giuste soluzioni alle reazioni e alle sommosse popolari dell’epoca:
Furono, infatti, costretti ad utilizzare il potere militare per reprimere le ribellioni delle masse di disperati ed emarginati che si sentivano, alla fine, più protetti e garantiti, prima dal brigantaggio e poi dalla criminalità organizzata.
La differenza culturale e l’incapacità di valutare appieno i gravissimi problemi della Calabria, non consentivano di dare il giusto peso alla miseria sconfinata, al malcontento, al malessere sociale profondo, alla fame di terra dei contadini, alle gelosie e lotte tra benestanti che, alimentando brigantaggio e criminalità, costrungevano la regione ed i suoi abitanti alla rassegnazione nei confronti di uno Stato ingiusto ed emarginante che obbligava la popolazione  o a convivere con l’illegalità, oppure  ad emigrare.
Iniziando, dunque, le nostre riflessioni a partire dall’unificazione del regno d’Italia, ci sembra opportuno, soprattutto in relazione alla  Calabria, citare  la nota riflessione di Benedetto Croce concernente  il  trapasso dal momento eroico, che aveva caratterizzato gli anni del Risorgimento nazionale, a quello più prosaico della risoluzione dei problemi nati con l’Unità: […] Non più scoppi di giubilo come nel sessanta da un capo all’altro d’Italia, e il respirare degli oppressi e l’affratellarsi delle varie popolazioni, ormai tutte italiane […].
 Molti sentivano che il meglio della loro vita era stato vissuto.
Tutti dicevano (e disse così anche il re, in uno dei discorsi della Corona) che il periodo “eroico” della nuova Italia era terminato e si entrava in quello ordinario del lavoro economico e che, alla “poesia” succedeva la “prosa”.
In Calabria, come in quasi tutto il Mezzogiorno, spentasi l’euforia dell’impresa dei Mille e quella suscitata dai plebisciti, attraverso i quali la stragrande maggioranza dei calabresi aveva manifestato il desiderio di far parte dello Stato italiano, riemergevano i vecchi problemi ai quali si sovrapponevano quelli nuovi, nati dal confronto con le regioni più progredite del resto d’Italia.
Infatti, la Calabria, nei quindici anni di governo della Destra Storica, dovette affrontare la nuova situazione politica, venutasi a creare con l’Unità, da una posizione di estrema debolezza economica e sociale.
Il nodo più difficile da sciogliere era rappresentato dalla necessità di subordinare i problemi locali a quelli generali dell’Italia.
La regione non “sentiva” l’opportunità di sacrificare le sue scarse risorse economiche e intellettive nell’interesse generale di un’entità statale che ai più appariva lontana ed astratta.
I calabresi, infatti, a parte il ristretto numero dei patrioti  che avevano avuto un ruolo determinante nel corso delle lotte risorgimentali e quello, altrettanto sparuto, degli intellettuali che avevano letto Hegel, Settembrini, Mazzini e Gioberti, dovettero, tra l’altro, fare i conti con un “nuovo” fenomeno politico, lo “Stato unitario” che stravolgeva il concetto stesso che essi avevano sempre avuto, sia dello Stato che della politica.
Fino al 1860, i calabresi avevano tenuto come punto di riferimento una capitale, Napoli che quasi nulla aveva chiesto e alla quale in verità poco era stato dato dalle estreme periferie del Regno.
Il re stesso, molto somigliante nei vizi e nelle virtù, ai suoi sudditi, aveva fatto sentire la sua voce attraverso quella, spesso violenta e brutale, dei suoi funzionari e dei ricchi proprietari terrieri, detentori del potere reale esercitato nei confronti dei braccianti e della plebe cittadina.
Era stato difficile, per una popolazione che deteneva il triste primato di altissimi indici di analfabetismo, di mortalità infantile, di disoccupazione e di mancanza, pressoché totale, di strutture, coltivare ideali che non fossero quelli della sopravvivenza e dell’affannosa ricerca della giornata di lavoro o del posto nella pubblica amministrazione.
Conseguita l’Unità, i calabresi venivano, quindi, chiamati a rendersi partecipi di questioni generali (completamento dell’unità nazionale, rapporti con la Chiesa, alleanze con gli Stati europei, ecc.) che, in effetti, nulla sembrava avessero in comune con i numerosi problemi locali rimasti uguali a prima, anzi peggiorati a causa dalle nuove leggi che prevedevano, tra l’altro, un sistema fiscale più moderno, più organico e rigoroso ed il servizio di leva come doverosa partecipazione di tutti gli italiani alla difesa della patria comune.
Tra i numerosi problemi che la Destra dovette immediatamente affrontare, relativamente alla crisi che investiva il Mezzogiorno e, soprattutto, la Calabria, vi furono quelli del brigantaggio, quelle delle conseguenze economiche derivanti dall’applicazione della legge sul macinato e, infine, quelle dell’eterna questione dei boschi della Sila.
Già all’inizio del 1861, in Calabria, il brigantaggio si manifestò nelle forme endemiche di furti, ricatti, vendette personali, atti vandalici contro le colture e il bestiame.
Cominciarono ad apparire le prime bande guidate da capi decisi, abili e spietati che rappresentavano un preoccupante superamento della fase iniziale del fenomeno che negli anni immediatamente precedenti l’Unità era stato caratterizzato dall’azione di fuorilegge isolati.
Le bande che crescevano, di giorno in giorno, in numero e aggressività, arrivarono ad attaccare i borghi rurali e, in qualche caso, anche i centri importanti .
Durante tali aggressioni,  venivano uccisi   liberali, sindaci,  ufficiali della guardia nazionale, nonché,  distrutti  gli archivi comunali e liberati i detenuti.
Episodi del genere si registrarono a Strongoli, a Zagarise e a San Mauro Marchesato.
Nel 1864, nel constatare l’esplosione del fenomeno, Vincenzo Padula così lo interpretava:
“Finora avemmo briganti, ora abbiamo il brigantaggio; e tra l’una e l’altra parola corre grande divario. Vi hanno briganti quando il popolo non gli ajuta, quando si ruba per vivere, e morire con la pancia piena; e vi ha brigantaggio quando la causa del brigante è la causa del popolo, allorquando questo lo ajuta, gli assicura gli assalti, la ritirata, il furto e ne divide i guadagni. Or noi siamo nella condizione del Brigantaggio […]. Il Brigantaggio imbaldanzito dice al popolo: "Garibaldi" vi promise carne e pane, e vi tradì; "Vittorio Emanuele" vi giurò di farvi felici e non attenne le promesse: seguite dunque noi. E il popolo è coi briganti; vale a dire, il popolo che una volta fu per Garibaldi,  pel Re, per l’ordine, per l’emancipazione d’Italia, ora è per la vergogna di Italia, pel disordine, pel saccheggio. Come cademmo così basso? Chi alimenta l’audacia dei briganti, ed assicura loro il dominio dei boschi? Noi non temiamo di dirlo”.[1]
Aggravatasi, pertanto, la situazione, il governo pensò di intervenire per stroncare questo fenomeno dilagante.
Il 15 luglio del 1863 cominciò, così, alla Camera dei Deputati la discussione sulla legge che prevedeva un massiccio intervento nelle province meridionali del Regno d’Italia.
Fin dalle prime battute, alla Camera emersero le due opposte tendenze che da qualche anno dividevano il paese sul quel fenomeno, che nel Mezzogiorno aveva assunto le dimensioni di un male endemico.
Bisogna ricordare, infatti, come abbiamo già accennato, che la presenza di briganti in Calabria aveva quasi scandito la storia stessa della regione, sin dal 1500.
In tempi più recenti i briganti erano stati, di volta in volta, utilizzati anche per fini politici.
Durante la spedizione del cardinale Ruffo, nel corso del decennio francese, la ferocia dei briganti calabresi era diventata  tristemente nota in tutta Europa, soprattutto, attraverso i diari degli ufficiali francesi, testimoni di veri e propri atti di crudeltà, compiuti nei confronti dei loro soldati.  
Il brigantaggio non assunse mai in Calabria, come del resto nelle altre regioni del Mezzogiorno, i caratteri di una rivolta sociale.
In effetti, tale fenomeno  fu sempre un fatto ricollegabile alla complessiva arretratezza della nostra regione, ma non per questo i briganti ebbero mai la consapevolezza, se si eccettua qualche rarissimo caso, di lottare per ideali di giustizia sociale o di libertà.
Incompreso nella sua reale dimensione e nelle sue svariate componenti, il brigantaggio, nel momento in cui lo Stato pensò di intervenire per reprimerlo, divise il mondo politico italiano.
Da una parte, si schierarono, rappresentando  la maggioranza, quanti vedevano in esso una manifestazione di delinquenza comune, resa maggiormente persistente a causa della  crisi determinata dai recenti sconvolgimenti politici e dal passaggio da un sistema di governo ad un altro.
I parlamentari che sollecitavano un pronto intervento dello Stato erano indotti ad assumere questa posizione anche  a causa della scarsa informazione sui molteplici problemi che travagliavano la Calabria e dal pregiudizio che il brigantaggio fosse da collegare ad una certa ferocia propria delle popolazioni del Sud.
Dall’altra, fatte salve le posizioni moderate e di mediazione che emersero nelle discussioni, sempre abbastanza animate, si collocavano i parlamentari convinti di trovarsi davanti ad un problema sociale da esaminare, con molta pacatezza e da risolvere con provvedimenti legislativi adeguati.
Tra i parlamentari calabresi si fece sentire, forte ed autorevole, la voce di Luigi Miceli[2], mentre gli altri rimasero silenziosi, come se i provvedimenti da prendere non interessassero direttamente la propria  regione e i propri  elettori.
Il Miceli si mostrò subito contrario ad interventi repressivi eccezionali, convinto com’era che altre dovessero essere le misure da prendere di fronte a fatti che, nonostante la loro gravità, celavano i profondi squilibri sociali esistenti nel Mezzogiorno d’Italia e, segnatamente, in Calabria.
Le cause del brigantaggio erano, a suo giudizio, l’endemica miseria delle masse contadine, la prepotenza e l’esosità dei proprietari terrieri, l’ingiusta distribuzione della ricchezza, l’infimo livello culturale del popolo, la mancanza assoluta di scuole, strade, ospedali ed altre infrastrutture primarie.
“Un Governo che succede ad una rivoluzione”, affermò il Miceli, nella seduta parlamentare del 31 luglio 1863, “è obbligato ad agire con la massima rapidità e franchezza, a non frapporre indugio di un sol giorno, ad approvare leggi dalle quali deve risultare la salvezza del plebe che vive di stenti […]. Un Governo onesto e che vuole la tranquillità del Paese, un Governo che vuole sradicare il brigantaggio e il borbonismo, non deve dare motivi per cui si istituiscano paragoni tra lui e il cessato Governo, deve fare giustizia, una rigorosa giustizia e più di tutto deve farla contro i potenti che abusano del loro stato”.
Nonostante la ferma posizione del Miceli e di altri parlamentari che operavano all’opposizione, venne approvata la legge Pica che prevedeva lo stato d’assedio, anche nelle Calabrie, e le conseguenti norme legislative che di fatto sospendevano le garanzie costituzionali.
L’esercito italiano intervenne in Calabria con estrema determinatezza e applicò, con severità, la legge speciale da poco approvata dal Parlamento.
Saccheggi, incendi, perquisizioni, ingiustizie e soprusi furono ciò che  la Calabria conobbe da parte dei piemontesi i quali pretendevano di risolvere con la repressione, un problema che, invece, andava visto ed interpretato con lungimiranza politica, piuttosto che soffocato con la forza delle armi.
Corollari di tutta questa campagna furono numerosi processi ed esecuzioni sommarie a carico di briganti o presunti tali.
Non si tenne conto del fatto che i contadini calabresi, per costume, non consideravano reato il possesso del fucile o del coltello.
Per le truppe inviate in Calabria, tale possesso rappresentava un delitto da punire severamente.
I briganti risposero con durezza a questo stato di cose e spesso misero a repentaglio la vita degli stessi soldati italiani, più volte in difficoltà su un terreno poco conosciuto e che tanto si prestava agli agguati e alle improvvise ritirate.
I briganti strinsero ancor più i loro rapporti sia con gli agenti borbonici che con una parte del clero locale, piuttosto sensibile alla politica oltranzista messa in atto da Pio IX.
Strette tra l’incombente minaccia dei briganti e le severe sanzioni per quanti si fossero assunto il compito di aiutare, in un modo o nell’altro, i fuorilegge, le popolazioni calabresi sperimentarono un sistema di governo che ai loro occhi apparve ingiusto ed estremamente lontano dai propri  bisogni.
Nella vischiosa situazione in cui venne a trovarsi la Calabria, a pochi anni dall’Unità, un ruolo importantissimo venne assunto dai proprietari terrieri, molti dei quali vennero definiti “manutengoli” per l’utilizzazione che fecero dei briganti a difesa delle loro proprietà,  minacciate dalle bande che battevano tutto il territorio.
La prima fase dell’insorgere del brigantaggio postunitario viene generalmente definita “politica” a causa degli  aiuti offerti dai sostenitori del passato regime.
Nell’estate del 1861, i Borboni pensarono che fosse necessario incanalare l’attività delle bande brigantesche verso precisi obiettivi politici di stampo legittimista.
I briganti, cioè, avrebbero dovuto operare in modo da preparare il terreno ai fini di una sollevazione generale del Mezzogiorno che favorisse il loro ritorno.
A tale fine, il principe di Scilla, nel luglio del 1861, pensò di affidare, tramite opportune istruzioni da parte del generale borbonico Clary, la delicatissima missione ad uno spagnolo della Catalogna Josè Borjes[3] che, con pochi compagni fidati, sbarcò in Calabria, sul litorale ionico, tra Bruzzano e Brancaleone, il 14 settembre 1861, nascondendosi tra i boschi dell’Aspromonte.
Il momento scelto non era, tuttavia, favorevole, anche perché, col sopraggiungere della stagione invernale, l’attività dei briganti si riduceva notevolmente e la repressione di luglio e di agosto, da parte dell’esercito nazionale, soprattutto nella provincia di Catanzaro, fu rapida e decisa.
Borjes e i suoi pochi compagni si trovarono quindi ben presto isolati.
Braccato dalle guardie nazionali e dalle truppe, egli tentò di tirare dalla sua parte la banda comandata dal brigante Mittica, con il  quale sembra avesse concertato un attacco a Platì.
Fallito il progetto, mentre Mittica veniva ucciso in un conflitto a fuoco con le forze dell’ordine, il Borjes, aiutato da un inviato del Principe di Bisignano, riuscì a fuggire verso la Basilicata.
Con la partenza del Borjes, si chiudeva in Calabria la fase del cosiddetto brigantaggio politico.
Quando venne approvata la legge Pica[4], lo Stato italiano si trovò a combattere contro bande che, praticamente, non potevano più contare sull’appoggio del partito borbonico.
Nonostante ciò, i risultati ottenuti dall’esercito non furono molto positivi, tant’è vero che, nel 1864, venne proposta la proroga della legge straordinaria.
Anche nel corso di quella discussione in Parlamento, tra i deputati calabresi, intervenne solo Luigi Miceli, per sostenere, tra l’altro che, “La legge eccezionale, vista in se stessa, è diventata tristissima per il modo violento ed arbitrario col quale è stata eseguita”
Del resto, l’intervento dello Stato ai fini della repressione del fenomeno non era una novità per il Mezzogiorno.
Anche il governo borbonico, proprio nel dodicennio preunitario, era intervenuto energicamente, conseguendo un certo successo. Le forze dell’ordine, coordinate in quell’occasione dal marchese Nunziante, che aveva ricevuto poteri eccezionali, avevano, infatti, catturato parecchi malfattori e denunciato presunti favoreggiatori (i cosiddetti manutengoli).
È un episodio da tenere ben presente, se pensiamo che non pochi proprietari terrieri calabresi avevano aderito e sostenuto i programmi unitari, anche perché speravano che un governo più forte di quello borbonico avrebbe avuto maggiori possibilità di debellare, definitivamente, quella piaga che non pochi danni procurava alle loro proprietà con incendi, furti di bestiame, ricatti e grassazioni varie.
Con l’Unità, molti Consigli municipali calabresi avevano invocato l’intervento dello Stato, anche se, poi, avevano manifestato il loro dissenso in occasione di rappresaglie particolarmente violente, eseguite nei territori posti sotto la loro giurisdizione.
In definitiva, si era creata in Calabria, una  contraddittoria visione  delle cose :  da una parte si faceva pressante  richiesta  di azioni determinanti  da parte dello Stato ma, nel contempo,  venivano rivolte critiche aspre allo stesso, quando la sua presenza assumeva tutte le caratteristiche di un vero e proprio stato d’assedio.
Infatti, la tecnica adottata dal generale Fumel che, spesso, non distingueva tra briganti e innocui possessori di fucili o di coltelli, non era il mezzo più idoneo per risolvere le cose.
Luigi Miceli, continuava a portare  avanti la sua battaglia politica contro quei mezzi che egli considerava inidonei per stroncare e risolvere il problema del brigantaggio.
Egli era uno dei pochi, se non l’unico deputato calabrese, che era riuscito ad inquadrare il fenomeno nei termini di una crisi profonda che, come tale, richiedeva interventi straordinari, in quanto, a suo parere, le vere cause del brigantaggio dovevano essere ricercate nell’inerzia del governo, nella protervia dei proprietari terrieri, oppressori della povera gente, nella mancata soluzione della questione silana e nella grave situazione delle terre demaniali.
Ad ogni modo, tra il 1861 e il 1862, furono eliminati in Calabria circa 1.560 briganti (1.023 nella provincia di Catanzaro, 306 in quella di Cosenza e 234 in quella di Reggio Calabria).
Tuttavia, nonostante le leggi eccezionali, il biennio 1863-64 segnò una recrudescenza del fenomeno che proprio in quegli anni, da elemento “politico”, dato l’appoggio che esso aveva ricevuto dai Borboni, si trasformava in vero e proprio dramma socio-economico.
Le estorsioni divennero più frequenti e non risparmiarono più neanche i grandi proprietari terrieri.
Ciò procurava ai briganti l’appoggio dei contadini.
In un ambiente come quello calabrese, i solidi legami materiali e morali tra i contadini (a parte l’antico mito ancora persistente del brigante difensore dei deboli) rendevano, ancora più difficile, l’opera di repressione, in un contesto che mal sopportava la presenza di uno Stato che, fino ad allora, si era mostrato, quasi soltanto, sotto l’aspetto repressivo.
Del resto, molti briganti erano coraggiosi e astuti e sapevano accattivarsi le simpatie dei diseredati, abituati da sempre a farsi giustizia da sé, date le note deficienze dei governanti del passato.
Celebri e non sempre disprezzate, in tutta la Calabria, divennero le bande di Pietro Monaco, di Faccione, di La Valle  e di Malerba.
Essi erano riusciti ad assoldare o quanto meno a trascinare dalla loro parte, parecchi elementi del disciolto esercito meridionale garibaldino.
La stessa grave crisi economica che aveva investito la Calabria, fin dal 1860, non rendeva agevole stroncare il brigantaggio che, anzi, proprio da questa negativa congiuntura, traeva spesso alimento.
I prezzi del pane e del sale si elevarono continuamente, dopo il 1860, e le misure adottate dal governo furono quasi sempre  limitate o tardive.
Si pensò di costruire strade, ponti, acquedotti e, a questo fine, con un decreto reale del gennaio 1861, vennero stanziati 10 milioni per lavori pubblici a favore del Mezzogiorno.
Vennero approntati i progetti, ma i soldi tardarono ad arrivare e Liborio Romano[5], nelle sue “Memorie Politiche”, affermava decisamente che, rimasto disatteso il decreto del 23 gennaio 1861: “ne seguirono due gravissimi mali: il primo, che il brigantaggio si accrebbe di tutti coloro che l’indigenza spinse a farvi ricorso come solo mezzo alla vita, fra’ quali non pochi dell’esercito borbonico, improvvidamente disciolto, il secondo era la mancanza di strade comunali che rendeva più difficoltosi gli scambi interpersonali e commerciali”.
Ma il governo non affrontò globalmente il problema e si limitò ad adottare solo misure di emergenza.
Scarso rilievo, infatti, ai fini del controllo del carovita, ebbero le importazioni di grano che avrebbero dovuto provocare un “ribasso” sui mercati meridionali.
In sintesi, si possono distinguere due grandi fasi del brigantaggio postunitario: la prima, quella politica, in quanto sorretta dall’appoggio dei Borboni che, anche in Calabria, si erano serviti, come già detto,  del catalano Josè "Borjes; la seconda, quella sottolineata dalla famosa relazione Massari, presentata nel comitato segreto della Camera dei deputati nel maggio 1863 e pubblicata dopo qualche mese.
Questa relazione, mise in evidenza che le principali cause determinanti del brigantaggio erano lo stato di estrema miseria in cui versava il proletariato meridionale, ossia quello dei contadini senza terra.
In essa veniva sottolineato, inoltre, che, nelle province dove i contadini possedevano la terra o partecipavano, in qualche modo, ai suoi frutti, minore appariva il flagello del brigantaggio.
Ci sembra ora  utile ricordare un documento dell’epoca, che, tra l’altro, ci offre la possibilità di ricostruire il clima creatosi attorno al fenomeno del brigantaggio.
Nel giugno del 1867 si celebrò, presso la Corte di Assise di Catanzaro, un processo a carico di 21 briganti.
Riportiamo alcuni brani del resoconto che di tale processo fece un anonimo articolista del «Giurista Calabrese».
Il documento ci sembra interessante per diversi motivi ma, soprattutto perché vi si nota la tendenza, di stampo positivistico, a leggere, nei tratti somatici degli imputati, una sorta di innata malvagità.
Evidentemente, sulla scia degli studi di Cesare Lombroso e dei suoi seguaci, si pretendeva di interpretare il carattere degli individui e delle popolazioni proprio attraverso l’esame del tratto somatico.
Ecco infatti cosa dice a tale proposito il cronista, nel descrivere i vari imputati:
“I giudicabili [ gli imputati, n.d.r.] serban quasi tutti un contegno di noncuranza — taluno di essi sta in atteggiamento di sprezzo — niuno sembra agitato dal rimorso. Il solo Pietro Bianchi, dalle atletiche forme e dalla folta e nera barba, conserva un’aria quasi serena, ma sotto quell’apparente tranquillità osservi la marcata sporgenza del labbro superiore, e l’occhio irrequieto vivacissimo, indice di una scaltrezza senza pari […]. Greco è il solo che veste il costume brigantesco — egli tocca appena 30 anni — È di mezzana statura: la conformazione speciale della bocca, e della fronte — e l’occhio stupidamente feroce, indicano l’abbiettezza e la perversità dell’animo […]. Un occhio piccolo, affossato, cupo — una bocca enormemente sporta in fuori, una fronte schiacciata, angustissima, il color del volto giallo-terreo e sfornito di peli — fanno distinguere fra tutti Pasquale Dardano Bufalaro — Se la fisonomia di Benedetto Greco può, tuttocché ributtante, esaminarsi per qualche tempo, quella di Dardano ispira tale invincibile ribrezzo che lo sguardo si ritorce inorridito, come se avesse incontrato le forme della iena. Antonio Critelli Grio, è giovine, robusto. Gli cresce sul mento una barba rossiccia, ed ha costantemente le labbra atteggiate ad un riso sprezzante — Sta poggiato ad una delle spranghe che chiudono i giudicabili, ed in tale giacitura pare che non si curi della solennità del giudizio”.
Anche la pubblica accusa, nella sua requisitoria di cui riportiamo i passaggi più significativi, interpreta, pienamente, la generalizzata lettura che si faceva del brigantaggio, anche se non mancano in essa degli accenni a fenomeni molto inquietanti, quali, ad esempio, quello del manutengolismo:
“Volge ormai il quinto anno dacché la selvaggia creazione del brigantaggio arreca alle due prime Calabrie lutti e danni pressocché innumerevoli. Quella orde di masnadieri fatte audacissime dall’aspra natura dei luoghi, dall’ignavia dei monti, e (con voce vibrata) dall’impudente connivenza dei pochi ai quali piace arricchire dell’altrui, non temerono di manomettere a viso aperto le sostanze dei privati, di maculare l’onore delle famiglie, di attentare alla vita dei cittadini […]. Distrutta la pastorizia con le frequenti uccisioni delle greggi: isterilita l’agricoltura tagliando le piante ed appiccando il fuoco alle biade ed alle case rurali; disseccata la fonte del commercio colle reiterate aggressioni sul pubblico cammino: impoverite le famiglie con le numerose estorsioni: insozzata coi ratti e cogli stupri la santità del pudore domestico: il tipo del brigante diventato nella degenere coscienza delle plebi un ideale di fortunati ardimenti […], parea che la forza sociale, e la potestà delle leggi dovessero rimanere paralizzate per lunga stagione […]”.
Terribili e, purtroppo, quanto mai attuali le testimonianze delle vittime dei briganti.
Uno di essi narrò che “mentre l’infelice Mancuso era agonizzante fu tagliato a pezzi, e dilaniato nel modo il più spaventevole. Ciò fatto [i briganti, n.d.r.] si recarono dall’altro pastore Chiarella e lo percossero in modo che gli ruppero la colonna vertebrale. Quel misero cercava allontanarsi carponi dal luogo, ma i briganti gli scaricarono contro vari colpi d’arma da fuoco e lo ferirono a morte. Prima di allontanarsi misero sul cadavere del Mancuso un biglietto scritto precedentemente da Perrelli, nel quale si diceva che egli, Sacco e Trapasso aveano consumati gli assassinii, perché sospettavano che i due pastori aveano fatto la spia alla pubblica forza contro i briganti”.
Un’altra vittima così diceva ai magistrati: “e così mi condussero nella Sila fra le nevi ed i geli, perché nel forte dell’inverno, e mi tennero 31 giorni fra le sevizie e le minaccie di morte, non essendo mai contenti delle somme ed oggetti preziosi che si mandavano dalla famiglia. Finalmente mediante la somma di ducati 16 mila circa fui liberato”.
Presidente: “aveste reciso anche l’orecchio sinistro?”.
Querelante: “Sissignore, a fin di mandarlo alla mia famiglia ed ottenere maggiori somme sen’altro indugio: ecco (e si alzò sollevando i capelli che coprivano l’immane sfregio)”.
Giustino Fortunato definì il brigantaggio l’ultimo terribile atto della vecchia e grave questione demaniale.
Presso l’Archivio di Stato di Catanzaro giacciono le maquettes dei briganti: erano lettere minatorie, ricatti, minacce, richieste di denaro, di averi o di altro alle famiglie benestanti.
In  esse, probabilmente scritte da uno scrivano semianalfabeta sotto dettatura, si riscontra l’evidente ignoranza dei briganti  i quali si esprimevano o scrivevano (se sapevano scrivere), in forma dialettale, per cui alcune parole si presentano incomprensibili e intraducibili.
A titolo di esempio, ne trascriviamo una, datata 1865, in cui era scritto: “Gentilissimo Signore è cavalieri Ripetuosamente Vengo a Baggiare la mano ma sono costretto a fati uno buoglieto in mia testa è Vi na Prego subito che ricevite questo biglietto che avete la premura per lo spazio di tre giorni che vi benignati à mandarer gli uggetti che noi vi domandamo. Primo tre cento ducati, due rivovari due pistoli a due buoti due stiletti ben fatti è 6 anela di oro; non altro vi saluto mo tutti è sono servitore – firmato Giachino loggo con la sua compagnia”,
(Gentilissimo Signore e cavaliere, rispettosamente vengo a baciarVi la mano, ma sono costretto a scrivere un biglietto di testa mia. Vi prego che quando riceverete questo biglietto di avere la premura nel tempo di tre giorni, vi benigniate di mandarmi gli oggetti che vi chiediamo. Per prima cosa trecento ducati, poi due revolver, due pistole a due fuochi, due stiletti ben fatti e sei anelli di oro; non altro vi salutano ora tutti e sono servitore - Gioacchino Longo con la sua compagnia).
Sempre lo stesso Longo, in un’altra lettera, chiederà 40 mila ducati, di cui ventimila in oro e ventimila in argento; poi, cento anelli, cento fazzoletti di seta, sette brillanti, …dieci paia di orecchini alla francese, sei cilindri (orologi) di oro con le catene di oro, sette carabine, revolver, settecento palle di revolver, sette cannocchiali di lunga vista e sette fili di oro per la gola del più grosso.
In un’altra lettera, sempre il Longo, aggiungerà: “sinon mandati questa somma, lo vostro figlio noi lo uccidiamo”.
In un altro avviso, aggiunge che avrebbe mandato le orecchie (“laricche”), oppure la testa.
Un altro brigante, nel 1864, chiederà seimila ducati, una bisaccia di pane e companatico, trenta canne[6] di velluto per fare cappelli, una canna di castoro, un orologio da taschino, “rilogo di sacca”, otto anelli, una collana, tre cappelli, quattro canne di velluto rigato, quattro paia di stivali, un revolver, cento bottoni in argento e di non fare parola con nessuno.
Un altro, nel 1862 chiede: “duecento piastre, perché non vi chiedo una somma che non potreste possedere, perché mi debbo sostenere con tutti i miei compagni, perché se me le rimettete ringrazio la vostra bontà e se no vi darò dei dispiaceri e lo voglio sapere subito, avete due ore di tempo”.
Un altro, nel 1861 scriverà: “La comitiva mi dice che se volete i buoi vivi dovete mandare sei canne di castoro, oppure il corrispondente in denaro, ed altri venti pezzi per il cappello, un paio di scarponi, tre mazzi di cartucce, due bottiglie di rosolio e due di rum (“rumbu”), un mazzo di sigari e quattro libbre di tabacco, moltissimo pane ben fatto, quattro camicie e quattro fazzoletti;… in caso contrario subito faremo “il festino”.
Una prova della religiosità e della devozione dei briganti verso le immagini votive si rileva in una lettera datata 8 agosto 1863, nella quale il brigante Vincenzo Scalise, detto Pane di Grano, minaccia i galantuomini di Petilia Policastro, un paesino in provincia di Crotone, ai quali intima di trasferire la statua della Madonna nel Romitorio, perché “Lei non è stata mai molestata e la gente che vi è andata in preghiera si è mossa con grande sicurezza e non è stata molestata e né verrà molestata da alcuno. Se non portate la madonna al romitorio vi bruso (vi brucio) le vostre robe (il casino, vacche e pecore) e con un battero (un fiammifero) vi rovino e la dovete portare in processione”.
Ma vi è, pure, una lettera di un ricattato, con uno stile di persona colta, il quale alla richiesta, sicuramente esosa, risponde al brigante affermando: “Caro Antonio, credimi non posso più. Il mio cuore è grande ma le mie finanze sono ristrettissime. Non andare presso le malelingue. Datti carico delle mie circostanze. Il bene che mi fai non andrà perduto. Se non posso oggi, spero potrò appresso. In me avrai un amico sincero che potrà esserti utile in ogni tempo, di notte e di giorno. Non mi affliggere perché non me lo merito. Io non ti conosco, non ti ho fatto male veruno. Ho sempre difeso i parenti dei briganti ed i loro amici senza interessi, e con zelo, quindi se non merito riguardi, merito almeno di non essere posto in croce. …Fa quello che Dio ti ispira. … Un amico vale più di un milione. Ajutami caro Antonio e poi comandami della vita. Ti saluto coi tuoi compagni e mi attendo i tuoi favori- tuo amico Luigi Chimirri”.
Poi vi è una lettera del 1865, nella quale il brigante Francesco Cristiano fa uno sconto al ricattato, perché ha appreso che è un sostenitore del Reale Francesco II: “voi siete rialista, così invece di ottocento ne manderete quanto potete, ma pensate che si devono contentare trenta persone… altrimenti avete un gran dispiacere. Come si vede, il rispetto verso il sostenitore dei reali è fino ad un certo punto, altrimenti saranno comunque guai”.
In una lettera di un sequestrato, il sig. Antonio Perri fu Diodato di Conflenti (prov. di Catanzaro), datata 1865, c’è scritto: “Mia cara Madre e caro fratello se mi volete vedere un’altra volta mandatemi la somma di quattromila ducati, il mio fucile e dieci canne di castoro, dieci di cotone, dieci di vellutino e duecento palmi di vellutino per i cappelli, perché io sono attaccato mano e piedi e poi la roba vale più della mia vita”.
Poi ancora: ”cara sposa vai da tuo padre, digli di fare il possibile per farsi prestare il denaro, che poi faremo i conti, perché verranno due signori con un fazzoletto bianco messo sopra la spalla sinistra la sera della domenica”.
Alla fine della missiva raccomanda di guardarsi dalle persone che potrebbero incontrare, “per non restare derubati e colle mani vacante”.
Un altro sequestrato, Luigi Filippo Chimirri, in una lettera del 1867, scrive: “Caro padre, io sono in mano ai briganti, che vogliono quarantamila ducati, poi sei orologi in oro a doppia cassa con le catene a laccetto per collana, sei revolvers, sei a due colpi di un’oncia, sei cannocchiali di lunga vista, venti paia di orecchini di dieci ducati il paio, cento anelli, cinquanta fazzoletti di seta, dieci collane per donna, dieci grembiuli damascati di seta, dieci canne di bordiglione castrato e dieci di castoro verde, dieci brillanti per le mani e subito preparate questa somma, affinché io possa ritornare a casa, se no passo all’altra vita”.
“Caro Padre non fate venire la forza militare cittadina, perché scontrandosi con la comitiva, io sarò ucciso. Vi raccomando, perché so benissimo che è impossibile che voi possiate disporre di tali somme ed oggetti, ma essi questo mi dissero di scrivere ed io scrissi. Non vi date troppo alla collera e pregate per il vostro infelice figlio”.
In una lettera del 1868 si legge: “inviatemi subito, nel termine di due ore, perché io sono di passaggio, duecento ducati, una bisaccia di pane e companatico per otto persone, perché se non me li mandate vi uccido i buoi e le pecore”.
Nel 1868, il brigante Angelo De Santijs scrive al parroco di Castagna “un paesino della presila”: “”Con tanta gentilezza vengo a pregarvi, se voi accettate le mie preghiere, voglio solo due fucili a due canne, il revolver ed un coltellaccio per questa sera”
“Non fateli venire meno queste cose se no vi provoco dei danni”
“Se non potete mandarmi questi oggetti, mandatemi la somma di cento ducati, al fine di poter comprare queste cose”.
Alcuni briganti, nelle loro lettere minatorie, si firmavano anche come “vostro amico”; in un’altra lettera un brigante, con una giustificata distinzione, si firmava “il vostro affezionatissimo amico e nemico”.
Questa breve corrispondenza epistolare tra persecutori e perseguitati dimostra come il brigantaggio che, agli inizi era stato visto dalle stesse popolazioni locali come uno “strumento di rivendicazione” ai soprusi perpetrati dai potenti contro i deboli, stava diventando, sempre più, un cancro che tendeva a divorare  anche quelle poche speranze di riscatto da parte di un popolo analfabeta, povero, pieno di pregiudizi e abbandonato dalle istituzioni.
Questa consapevolezza, spinse, lentamente, le popolazioni calabresi a rifiutare il sostegno alla bande brigantesche ed ai suoi “prestigiosi” capi, sui quali, molto spesso, le speranze degli umili e dei diseredati si erano riversate.
Questo cambio di atteggiamento, da parte delle masse contadine nei confronti del brigantaggio,  facilitò le forze dell’ordine a sgominare le ultime bande,  verso la fine degli anni ’60 del XIX secolo.
 
 

2)    Situazione sociale ed economica della Calabria nel periodo post-unitario e le grandi ondate migratorie 

 
Le grandi ondate migratorie hanno interessato l’intera Europa, per tutto il XIX secolo.
In Italia, l’emigrazione si manifestò a partire dalla seconda metà del XIX secolo e crebbe, in modo abnorme, fino al 1915, con la caratterizzazione di una prevalente destinazione europea per gli emigrati del Centro-Nord e transoceanica, per quelli del Meridione.
Per quanto riguarda la Calabria, l’indice migratorio della regione, fino al 1885, si rivelò molto più basso rispetto a quello della quasi totalità delle altre regioni meridionali (51.290 emigrati).
 Successivamente, il ritmo di crescita dell’emigrazione fu, invece, rapidissimo, tanto è vero che, nel successivo quindicennio 1886/1900, espatriarono 224.363 persone, mentre dal 1901 al 1915 ne emigrarono 421.694[7].
Durante questo periodo, solo il Veneto superò la Calabria in questa spaventosa ondata migratoria, mentre le altre regioni restarono molto al di sotto.
Nel complesso, dal 1876 al 1915, il saldo migratorio estero fu pari a 697.347 unità[8], cioè circa il 50% dell’intera popolazione.
Le due più grandi ondate migratorie, fuori dal territorio nazionale, di tutte le regioni italiane, riguardarono, la prima il periodo 1904-1907, con una punta nel 1905 e la seconda, il triennio  1912-1914, con una punta nel 1913.
Entrambe queste ondate trovano, nel rapporto espatri-popolazione,  la Calabria in testa: quella del 1904-1907, la vede al primo posto con 202.085 emigrati (62.290 nel 1905) e quella del 1912-1914, al terzo posto con 127.429 emigrati (55.910 nel 1913), preceduta dagli Abruzzi e dalla Sicilia.
Molti studiosi hanno annoverato, tra le cause di questo fenomeno, anche il carattere emotivo ed avventuroso del calabrese[9].
Esaminando l’ampiezza del flusso migratorio all’interno della regione, e, in particolare, a livello provinciale, si nota che la provincia di Cosenza fu quella che diede il contributo di gran lunga maggiore all’emigrazione, seguita da  Catanzaro e da Reggio Calabria.
In merito alla destinazione, l’emigrazione calabrese si caratterizza, rispetto a quella del resto d’Italia, perché spiccatamente transoceanica.
A livello nazionale, il numero degli emigrati transoceanici, in valore assoluto, balza da 328.231 persone, durante il periodo 1880-1885, a 1.928.161, durante il sessennio 1910-1915.
Più specificamente, i censimenti, a partire dal 1881, registrarono un numero sempre maggiore di italiani assenti, in quanto residenti all’estero al momento del censimento, per raggiungere dimensioni colossali proprio in conseguenza dell’emigrazione transoceanica.
Infatti, nel 1881, gli italiani all’estero furono poco più di un milione e, nel 1891, sfiorarono i due milioni; nel 1901 salirono al di sopra di tre milioni e mezzo e nel 1911 furono quasi sei milioni[10], di cui 4.894.532 verso i  Paesi transoceanici  e 910.568 verso i Paesi europei[11].
L’esplosione vera e propria dell’emi­grazione transoceanica, però, si ebbe nel Mezzogiorno e, più particolarmente, in Calabria, dove, nel decennio 1876/1885, emigrarono 51.290 persone, mentre, nel quindicennio 1901/1915, gli emigrati  furono 421.694.
Nessun’altra regione italiana toccò questi livelli, nel rapporto tra emigrati e popolazione.
A sottolineare l’enormità delle dimensioni dell’emigrazione transoceanica calabrese basta ricordare che, dalla sola Calabria, partirono, oltreoceano, più lavoratori che dall’intera Italia centrale.
Infatti, tra il 1880 e il 1915, varcarono l’oceano, in cerca di lavoro, ben 870.670 calabresi, mentre dall’Italia centrale (Toscana, Umbria, Marche e Lazio), nello stesso periodo, emigrarono, oltre oceano, 757.236 persone[12].
L’emigrazione dalla Calabria, per esser quasi esclusivamente transoceanica, ha portato ad un depauperamento umano maggiore rispetto a tutte le altre regioni italiane dove l’emigrazione fu quasi esclusivamente o prevalentemente, europea.
Valutando il numero dei rimpatriati dai Paesi transoceanici, dal 1905 al 1915, e confrontandolo col numero di emigrati oltre oceano dello stesso periodo, si nota come i rimpatri, in percentuale, siano molto meno frequenti in Calabria, rispetto al resto d’Italia.
Infatti, durante tale periodo, rispetto a 4.760.000 italiani emigrati, ne sono ritornati 2.520.000 (52,7%); dalla Calabria, invece, sono partiti, sempre nello stesso periodo, 456.780 emigrati, di cui sono ritornati 181.411 (39,7%).
Per quanto riguarda i Paesi di destinazione, l’emigrazione calabrese si riversò, quasi per intero, nelle Americhe, soprattutto in Brasile, Argentina e Stati Uniti, mentre verso l’Asia e l’Oceania fu praticamente nulla: la sua punta massima fu di 150 emigrati nel 1910[13].
Per quanto riguarda l’emigrazione in Europa, essa si è sempre concentrata su Francia e Svizzera; unica eccezione si ebbe nel 1902, quando dei 3.608 calabresi emigrati in Europa, ben 1.586 si diressero verso l’Austria[14]. L’emigrazione verso l’Africa toccò la punta massima, nel 1882 e nel 1885, con circa 2.300 emigrati. La destinazione prevalente agli inizi è l’Algeria, spostatasi, poi,  verso l’Egitto e la Tunisia[15].
Circa l’emigrazione verso le Americhe, c’è da osservare che i calabresi, nei primi anni si dirigevano, in prevalenza, verso il Brasile e l’Argentina; poi, intorno al 1890, verso gli Stati Uniti, con una contrazione tra il 1894 e il 1900, per poi affermarsi, definitivamente, come corrente prevalente fino al 1915, con la conseguente riduzione percentuale degli emigrati verso il Brasile e l’Argentina.
Tale tendenza generale dell’emigrazione regionale non si riproduce nelle correnti direzionali dell’emigrazione delle tre province.
Ad esempio, l’emigrazione cosentina fu, soprattutto, orientata verso l’Argentina e, in misura lievemente minore, verso il Brasile.
L’emigrazione verso gli Stati Uniti d’America segna un certo incremento nel periodo 1882-1893[16].
L’emigrazione catanzarese si orientò, inizialmente, verso l’Argentina e gli Stati Uniti; dal 1893 in poi, si ridusse la prima e si consolidò la seconda, mentre crebbe anche quella verso il Brasile[17].
L’emigrazione reggina, agli inizi, segue la stessa direttrice di quella catanzarese, con prevalenza verso l’Argentina e gli Stati Uniti; il Brasile è del tutto ignorato fino al 1885 e anche negli anni successivi non attirerà molti emigrati da questa provincia. Dal 1893, si estende la corrente diretta verso gli Stati Uniti.
Spesso nelle grandi città americane si concentrava un così alto numero di calabresi, talvolta provenienti tutti dallo stesso Comune, che potevano occupare un intero rione, dove facevano rivivere le tradizioni del Paese d’origine, per mitigare la  nostalgia della propria terra.
Circa le cause profonde ed essenziali dell’emigrazione calabrese, molto si è detto e scritto[18].
Noi riteniamo che la causa fondamentale dell’emigrazione calabrese e, più in generale meridionale, sia da ricercare nei profondi cambiamenti provocati dall’Unificazione d’Italia[19].
Il passaggio dal regime borbonico al nuovo Stato determinò, infatti, la rottura del vecchio equilibrio economico-sociale (un equilibrio basato su una struttura patriarcale e feudale, ma pur sempre un equilibrio), senza, però, essere sostituito con un nuovo e soddisfacente assetto.
Inoltre, l’estensione, tout court, nelle regioni dell’ex Regno delle due Sicilie, della legislazione vigente nel Regno del Piemonte (in particolare, quella fiscale), realizzata con le cinque leggi Bastogi[20], emanate tra il 1861 e il 1862, aggravò, notevolmente, le condizioni economiche del Meridione e scatenò una vera e propria ostilità nei confronti del nuovo  Stato unitario.
La popolazione meridionale non era abituata a questo tipo di pressione fiscale, in quanto i Borboni si erano ispirati, nel sistema di governo, ad una gestione patriarcale di uno Stato sostanzialmente immobilista, in quanto, essendo ridotti al minimo gli oneri pubblici per i servizi, la difesa e l’amministrazione, la mano del fisco non era pesante.
Sebbene l’obiettivo dei Borboni non fosse quello di alleviare le pene dei sudditi, tuttavia, avevano abituato la gente a convivere con la loro povertà e, molto spesso, con la loro miseria senza però, opprimerli anche con un sistema di tassazione estremamente gravoso.
Il Piemonte, invece, poiché si avviava verso la trasformazione e l’ammodernamento, allo scopo di raggiungere una certa posizione di prestigio tra le potenze europee, si vedeva costretto ad esercitare una dura pressione fiscale in tutta Italia[21], ritenuta l’unico mezzo per recuperare il disastroso deficit della finanza pubblica.
La necessità di costruire ponti, strade, ferrovie ed altri grandi infrastrutture, creò momenti drammatici per le pressanti preoccupazioni derivanti dalla critica situazione finanziaria del nuovo Stato.
Bisogna, infatti, tener presente che il nuovo Regno d’Italia dovette accollarsi anche il deficit degli Stati annessi. Le finanze non potevano certo fare affidamento sull’agricoltura, ancora arretrata, né sulle poche e primitive industrie (che pure esistevano nel nord) o sugli scarsi e limitati commerci.
Così, estendendo a tutte le regioni il sistema piemontese, si ebbe un’acutizzazione improvvisa del peso fiscale che rimase inspiegabile per la gran parte dei cittadini.
Si pensi, ad esempio, quanto dovette apparire assurdo ed illogico ai calabresi che, alla morte del proprio genitore, per ereditare la terra o la casa, dovevano pagare una tassa dello 0,55% del valore[22].
Era questa una situazione inaccettabile per la gente delle campagne, in quanto essa non riusciva a comprendere perché si dovessero pagare dei soldi allo Stato, nel momento in cui la “roba” passava dai padri ai figli[23].
Con i dazi, le tasse sul macinato e gli aumenti del prezzo del sale, si aggravò, ulteriormente, la situazione generale, provocando il risentimento delle popolazioni e creando nuove difficoltà alla stessa economia[24].
In questo contesto, le masse popolari assistevano, con grande diffidenza, a questi cambiamenti che, ai loro occhi, si presentavano non solo sotto la forma dell’aggravio fiscale, ma anche quali cause della mancanza di lavoro e dell’acutizzarsi delle loro condizioni di miseria per la staticità di salari, mentre il costo della vita saliva.
Per meglio comprendere, perciò, il grande fenomeno dell’emigrazione, specialmente a partire dall’Unità d’Italia, è necessario avere cognizione,  sia pure in modo sommario, della situazione  sociale ed economica della Calabria postunitaria che, unitamente alla Basilicata, era ritenuta la regione più arretrata di tutto il Mezzogiorno.
Secondo le relazioni prefettizie delle tre province, la società calabrese continuava, sempre più, a regredire: un sistema sostanzialmente feudale perpetuava il privilegio di pochi, a danno, naturalmente, delle masse rurali.
La vita pubblica della Calabria era caratterizzata da un diffuso analfabetismo, dalla grande arretratezza della classe contadina, da una profonda miseria, dall’odio contadino per i ricchi, dall’orgoglioso distacco di questi ultimi dalle masse rurali, dalla mancanza di capitali da investire nell’agricoltura e dal massiccio fenomeno dell’usura che corrodeva sia i patrimoni dei ricchi assenteisti, sia  le magre risorse dei più poveri.
La distribuzione della proprietà calabrese era concentrata nelle mani di poche famiglie, il cui scopo era quello di ingrandire sempre più il loro patrimonio, trascurando, invece di migliorare, le coltivazioni delle terre possedute.
Inoltre, le classi sociali più agiate  che, altrove, costituivano la borghesia attiva, nonché una delle maggiori forze della società, in Calabria, invece, si erano trasformate in un “nobilato”, il cui unico desiderio era quello di allontanarsi dalla campagna, in quanto  non essendoci più condizioni di vita per loro “sufficienti”, specialmente, dopo la politica fiscale imposta dal Regno d’Italia.
Il latifondo, pertanto, ostacolava lo sviluppo della regione e produceva l’inquietante fenomeno del bracciantato, costretto alla disoccupazione o a subire, per un salario di fame, i soprusi e i ricatti degli addetti al reclutamento della manodopera.
Peraltro, l’elevato spezzettamento della proprietà rendeva estremamente precaria la vita di quanti non riuscivano, nonostante gli sforzi, a ricavare dalla terra nemmeno l’indispensabile per vivere[25].
Così, anche se l’aspirazione del contadino calabrese era sempre stata quella  di possedere un pezzo di terra nella quale poter  ravvisare  «la soluzione del problema del pane quotidiano»[26], in quelle condizioni di miseria e sfruttamento, non era possibile sopravvivere.
Le tecniche agricole diffuse in Calabria erano, infatti, tutt’altro che moderne: mancavano bestiame, idonei mezzi di fertilizzazione del suolo, case rurali ecc..
 Il binomio terra-manodopera non era fatta solo di povertà materiale, ma di tutti quei corollari che, solitamente, accompagnano le precarie condizioni di vita di un popolo[27].
Ad aggravare questo stato di cose, durante il periodo 1888-1894, fu la gravissima crisi economica che colpì l’intero Paese, coinvolgendo quasi tutti i settori produttivi, incluso il sistema bancario, e determinando,  così, il progressivo deprezzamento dei prodotti della terra e la drastica riduzione della domanda di lavoro in agricoltura.
La classe lavoratrice, dunque, si aggirava in un dedalo di miserie da cui le era impossibile uscire: non trovava lavoro a giornata perché il proprietario o l’affittuario non avevano più convenienza a far lavorare terreni — soprattutto quelli coltivati a cereali — che rendevano poco o nulla […]. Migliaia di famiglie languivano stremate dalla fame, per cui erano sempre più le popolazioni costrette a trovare altrove, e specialmente all’estero, i mezzi della loro sopravvivenza[28].
Alcuni prefetti della Calabria, in risposta ad una iniziativa del Ministero dell’Agricoltura dell’epoca[29], finalizzata a meglio conoscere le condizioni di vita dei braccianti e l’indice di produzione delle terre demaniali e dei latifondisti, sottolineavano come la mancanza di capitali da impiegare nella bonifica dei fondi e/o nel perfezionamento delle colture,  la quasi inesistenza del credito agrario e fondiario, i gravi balzelli che pesavano sull’agricoltura e le difficili condizioni commerciali riducevano la manodopera, costringendo gli stessi  coltivatori dei demani comunali ad abbandonare le terre.
“I contadini emigrano numerosi”, essi sostenevano, “non vogliono accettare il lavoro che troppo scarsamente, ed anche mal retribuito, ad essi offrono i proprietari. Così, la popolazione rurale si dirige all’estero o in cerca di lavoro più equamente retribuito o per trovare migliore fortuna e l’emigrazione assume sempre più estese proporzioni”.
“Non è invero la mancanza di terreno da coltivare che obbliga i nostri contadini ad abbandonare la patria, sono invece, in gran parte, i salari che diminuiscono e la crisi che investe man mano le campagne”[30].
In effetti, si verificava  il paradosso che, alla riduzione dei salari, i prezzi dei generi di prima necessità andavano, costantemente, aumentando.
Gli stessi contratti agrari  miravano soltanto allo sfruttamento dei contadini i quali, anche a causa  dell’aumento notevole della natalità, erano costretti a trovare migliori condizioni di lavoro in altri luoghi.
“A risollevare efficacemente l’agricoltura, se le circostanze presenti del paese lo permettessero”, sostenevano i prefetti nelle loro relazioni, “gioverebbe l’impiego di molti milioni in lavori di bonifica nei non pochi terreni paludosi”[31].
“Opportuno sarebbe eccitare lo spirito di associazione fra proprietari di terreni incolti, dimora perenne di febbri, acché uniti in consorzio, diano mano, in piccole proporzioni, ad opere di bonificazione e di miglioramento, stabilendo all’uopo appositi premi e distinzioni”[32].
“Solo in questo modo si potrebbe porre un argine all’invadente emigrazione, che toglie al paese, colla gioventù più robusta, i più validi braccianti ed agricoltori”[33].
Purtroppo, la classe dirigente postunitaria non comprese  o non volle comprendere la diversità del Sud, nei confronti del quale sarebbe stato opportuno varare programmi specifici, diretti a sbloccare una situazione aggravata dalla legislazione in materia fiscale,  con interventi settoriali capaci di tenere, nel dovuto conto,  l’arretratezza del Meridione.
Invece, l’aggravio fiscale non colpì solo l’economia agricola ma determinò delle profonde ripercussioni negative, anche nel debole tessuto industriale delle regioni meridionali.
Infatti, nel Mezzogiorno e in Calabria, esisteva, prima del 1860, un certo numero di industrie, soprattutto filande seriche e di cotone, modesti stabilimenti per la lavorazione dei prodotti agricoli.
Si trattava, in effetti, di piccole aziende che sfruttavano, come fonte energetica, i corsi d’acqua e, come manodopera, soprattutto le donne, retribuite in ragione del 50% della retribuzione degli uomini.
Erano, quindi, tali piccole industrie, distribuite quasi ovunque, che sopperivano ai consumi del mercato interno, protette con dazi che arrivavano fino all’80%[34].
Purtroppo, la nuova politica economica, varata dopo l’Unità, con il drenaggio di capitali attraverso la vendita dei beni demaniali ed ex ecclesiastici, la concentrazione della spesa pubblica nel Nord (per far fronte alle esigenze di una prevedibile imminente guerra contro l’Austria) e, soprattutto, la politica doganale[35] determinarono il quasi totale fallimento di questo “microsistema di sopravvivenza” che caratterizzava il fragile tessuto economico-produttivo della regione.
Ad esempio, con la legge del 30 giugno del 1860, che abbassava i dazi doganali, si colpì doppiamente il Mezzogiorno: anzitutto, perché l’esportazione dei prodotti agricoli provocò, oltre all’aumento del prezzo del pane e dei generi di prima necessità, una spinta a proseguire nelle colture estensive cerealicole; in secondo luogo, perché l’importazione di prodotti industriali esteri, a basso prezzo, danneggiava, anche se non direttamente,  l’industria meridionale abituata, come già detto, alla protezione di dazi fino all’80%.
L’industria del Nord, invece, non ne risentiva, in quanto la sua produzione, oltre ad essere assorbita dalla domanda locale, era proiettata in un mercato diventato molto più ampio dopo l’unificazione[36].
L’industria meridionale, colpita così duramente proprio nel momento in cui doveva lanciarsi sul piano dell’ammodernamento (sostituzione delle ruote mosse ad acqua con le macchina a vapore, abbandono dei borghi e conseguente concentrazione ed espansione verso i grandi centri,  applicazione di nuove tecniche), si chiuse in se stessa, continuando,  per qualche anno, a sopperire ancora alle esigenze di un mercato chiuso, caratterizzato dall’autoconsumo e  cominciando, di conseguenza, a morire[37].
A questa situazione, bisognava aggiungere, oltre all’altissimo livello di analfabetismo (l’87% di tutta la popolazione regionale, nel 1871, era analfabeta)[38], lo stato di generale degrado dei servizi civili, in termini di abitazioni, scuole e acquedotti.
Così riferivano alcuni prefetti:
“Le condizioni civili ed igieniche dei paesi erano inverosimilmente arretrate, mancando, oltre che le scuole e le strade, le fognature e gli acquedotti: il rifornimento di acqua potabile veniva fatto dalle donne con barili ed altri recipienti trasportati sulla testa, o sui fianchi, presso le magre sorgenti distanti dall’abitato talvolta più di un chilometro; la lavatura dei panni era effettuata, sempre dalle donne, che generalmente camminavano scalze, nelle “fiumare” raggiungibili per lunghi ed impervi sentieri”[39].
“Deposito di ogni sorta di immondizie sono le pubbliche strade che dalle amministrazioni comunali nelle circostanze ordinarie non si fanno mai spazzare; anzi si tollera che ogni cittadino faccia dei cumuli di concime presso la soglia della propria casa, stalla o porcile e li lasci lì a fermentare per tempo parecchio”[40].
“Nelle abitazioni erano diffusi la promiscuità umana e con gli animali ed il sovraffollamento più gravi”[41].
“In genere, in una stessa stanza dormivano tutti i membri della famiglia in due grandi letti: in uno i genitori con i figlioletti più piccoli e nell’altro i figli, maschi e femmine, anche se già grandi”[42].
“Poche abitazioni hanno i cessi e lo sbocco dei pochi corsi luridi si apre in vicinanza delle mura, su terreno attiguo e allo scoperto: larga la costumanza generale di scaricare il ventre nelle pubbliche strade. . .” [43].
“Il servizio sanitario da parte dei comuni era completamente trascurato, per cui si diffondeva rapidamente la sifilide; il vaiolo serpeggiava e faceva stragi maggiori in quei paesi dove la vaccinazione era stata trascurata, l’angina difterica per anni affliggeva le popolazioni senza accennare ad esaurirsi, imperversava l’infezione tifosa. Piaga dolente la malaria, che rendeva impraticabili proprio le poche pianure che avrebbero potuto dare i più alti redditi agricoli”[44].
“Scarse, male attrezzate e poco frequentate le scuole elementari. I ragazzi ben raramente frequentano la scuola: prima dell’età di 12 anni vengono addetti alla custodia e guardia degli animali domestici. Dall’età di 12 anni in poi si addicono alla cultura con la zappa. In genere le scuole sono sfornite di cesso, e i ragazzi per soddisfare ai propri bisogni naturali escono con permesso”[45].
Basta solo questo per rendersi conto della gravità della situazione sociale ed economica della Calabria, nel momento della costituzione del Regno d’Italia.
Certo, l’arretratezza e la miseria della Calabria, denunciate tra l’altro, dalle famose inchieste promosse dallo Stato italiano post-unitario e interpretate dai meridionalisti, non erano mali recenti da addebitare, esclusivamente, al malgoverno o allo sfruttamento programmato dai “nordisti”.
Esse, infatti, affondavano le loro radici nel passato e testimoniavano, di conseguenza, il dramma di un popolo da sempre angariato dai potenti e dall’avarizia di una terra peraltro mai “addomesticata” dalla tecnologia e da sostanziosi investimenti di capitali.
Basti ricordare che la rapacità dei funzionari locali, poco o per nulla controllati dalle autorità centrali, e la rigida struttura economica che non consentiva mutamenti di condizione, non  lasciavano  spazio alla speranza di una congiuntura che favorisse, in qualche modo, il superamento dello stato di estrema povertà in cui, da secoli, la maggior parte della popolazione viveva.
Tutto questo, però,  non assolve la classe politica dell’epoca che, di fronte a tali situazioni, si dimostrava quasi indifferente e per nulla interessata  a ricercare strategie adeguate, al fine di poter ridurre la gravità dei problemi che assillavano tutte le regioni del Mezzogiorno.
Anzi, la classe politica, per motivazioni sostanzialmente diverse, aggravò il divario tra Nord e Sud.
Infatti, mentre la Destra, per le caratteristiche dei suoi uomini più rappresentativi, tendeva a favorire i grandi proprietari terrieri, la Sinistra, propendeva per l’insediamento di nuovi investimenti industriali senza, però, individuare un vero e coerente pacchetto d’interventi, specialmente a causa della mancanza di risorse finanziarie, visto il grosso indebitamento pubblico del bilancio dello Stato.
Le masse popolari, in particolare quelle calabresi, non avevano alcun mezzo o strumento organizzativo per opporsi a tale stato di cose. La classe dirigente dimostrava un’ostinata insensibilità a tali problemi, anche a livello locale[46], dove gli amministratori comunali, i dirigenti dei Comizi Agrari[47] e gli amministratori provinciali, non solo non promuovevano alcuna iniziativa che potesse alleviare queste gravi condizioni, ma si mostravano sordi e restii a fornire  le risposte alle varie inchieste, promosse dai Ministeri.
Questo immobilismo nell’organizzazione sociale e nella capacità di reagire al conservatorismo più assoluto contribuì, in modo determinante, a lasciare il paesaggio agrario calabrese  pressoché immutato, fino ai primi decenni del XX secolo, atteso che, tra l’altro, i pochi grandi proprietari, gelosi dei privilegi di cui godevano, non erano per nulla disposti ad operare trasformazioni capaci di promuovere uno sviluppo razionale dell’economia regionale e di creare condizioni di vita migliori per i lavoratori della terra.
La mancanza di tradizioni associative e di lotta di classe delle masse calabresi non permetteva, altresì, di dare soluzione di continuità a questo immobilismo storico; anche le agitazioni contadine verificatesi nella regione, furono la conseguenza di tentativi isolati, caratterizzati da inefficiente organizzazione.
Fino alla vigilia del ’900, infatti,  non esistevano organizzazioni politiche o sindacali dei lavoratori[48] ed erano state organizzate solo poche società di Mutuo Soccorso[49].
Solo verso la fine del secolo XIX cominciò ad enuclearsi, faticosamente, qualche primo germoglio di organizzazione.
Ma questo non fu sufficiente per ridurre l’emigrazione dei calabresi, non solo verso le terre transoceaniche, ma anche verso l’Europa (Francia, Germania, Svizzera, Belgio)[50].
Nel periodo compreso tra gli anni 1876-1895 gli emigrati calabresi oltreoceano rappresentavano il 90% dell’intera emigrazione estera.
Fino al 1880, come già sottolineato, il fenomeno non aveva assunto dimensioni di rilievo[51].
Infatti, l’inchiesta Jacini[52] diceva dei calabresi che essi “benché le condizioni dei salari e del vivere, in generale, fossero assai inferiori a quelle della Basilicata, o non si mossero punto o pochissimo….” .[53]
Solo a partire dal 1885, l’emigrazione assunse dimensioni notevoli, crescendo, gradualmente, fino all’imponente fuga che caratterizzò i primi anni del ‘900.
Se, comunque, l’emigrazione, specialmente in Calabria, rappresentò l’unica ancora di salvezza per una classe sociale, giunta ormai al limite della sopportazione, tuttavia, essa ha ridotto l’accrescimento demografico regionale, determinando un processo d’invecchiamento della popolazione, nel tempo, sempre più vistoso[54].
Pertanto, dal primo censimento del 1861 a quello del 2001 la popolazione calabrese è aumentata dell’1,74%, passando da 1.155.000 abitanti a 2.011.466[55],mentre, nello stesso periodo, la popolazione meridionale si è più che raddoppiata, passando da 9.632.000 a 20.515.000[56].
Tale dinamica è stata, dunque, condizionata dalle forti perdite migratorie che ne hanno frenato il ritmo di crescita.
Solo con il blocco dell’emigrazione imposta dal fascismo, la Calabria registrò un incremento demografico, tra il 1922 e il 1942[57], pari al 25,6%[58].
In questo ventennio, infatti, il saldo migratorio con l’estero fu pari a 99.938 emigrati e costituì appena il 23,6% rispetto al decennio 1901/1915, il cui saldo migratorio netto fu  pari a 421.694 unità.
Dopo la seconda guerra mondiale, il movimento migratorio verso l’estero cominciò a riprendere in modo consistente, tant’è che, già durante il periodo 1946/1954, il saldo migratorio negativo con l’estero era pari a 165.044 emigrati.
Agli inizi degli anni ’50, poi,  il volume dell’emigrazione dalla regione aumenta in modo allarmante, in quanto agli espatri oltreoceano, si aggiungono  le “migrazioni interne” extraregionali.
Per quanto riguarda le migrazioni interne, esse cominciano a prendere consistenza, con “poco più di 12 mila cancellazioni anagrafiche in media all’anno”, in termini di saldo migratorio[59], nel periodo 1955/59.
Anche il saldo migratorio con l’estero, durante questo periodo, subisce un’impennata negativa, con una media di oltre 19.000 unità all’anno.
Nel successivo quinquennio 1960-64, l’emigrazione interna calabrese (e quella meridionale, in generale) continua a crescere in modo allarmante, tant’è  che il saldo migratorio della Calabria sfiora le 30.000 unità in media all’anno[60].
A livello di saldo migratorio estero, nelle stesso periodo, la media annua si avvicina alle 18.000 persone, mantenendo lo stesso trend del quinquennio precedente.
In seguito e fino alla crisi petrolifera del 1973, il saldo migratorio interno della Calabria si mantiene ancora elevato, tra le 19.000 e le 20.000 unità in media all’anno[61], mentre quello estero comincia a subire delle flessioni notevoli, con una media annua di  circa 8.000 unità che si riducono, ulteriormente, negli anni successivi[62].
Dal 1955 al 1974 si registra un saldo migratorio estero (espatri-rimpatri) pari a 264.000 persone, mentre in termini di emigrazione interna, nello stesso periodo, il saldo è pari a 409.000 persone.
Dopo la crisi petrolifera, durante il periodo 1975/89, il saldo estero è pari a  42.000 emigrati, mentre quello interno e di 106.000 emigrati.
Dal 1990 al 2000,  si registra una tendenza discendente molto marcata per il saldo migratorio estero  (20.000 persone) e più contenuta per quella interna (99.400).
Dal 2000 al 2005, sia il saldo estero che quello interno, praticamente si dimezzano, passando, il primo a 10.700 unità ed il secondo a 41.900.
Nel complesso, sulla base delle  elaborazioni Svimez sui dati Istat[63], si calcola che, dal 1955 al 2005, il saldo migratorio dalla Calabria verso le altre regioni italiane è stato di circa 652.000 persone.
Se, a questa cifra, aggiungiamo il saldo migratorio estero[64], pari a 334.000 unità, abbiamo una emigrazione complessiva, nel periodo 1955/2005, che si aggira intorno ad un milione di emigrati (986.000).
Questi ultimi, sommati a quelli registrati, sempre in termini di saldo migratorio (espatri-rimpatri), durante il periodo 1876/1954, pari a 1.015.397 unità, abbiamo, nell’intero arco degli ultimi 130 anni (1876/2005), un  valore complessivo di emigrati calabresi verso gli altri Stati e nelle altre regioni italiane pari a 2.001.397 persone, di cui 1.344.397 verso l’estero.
Se a questi dati aggiungiamo, poi, quelli relativi al periodo 2006/2010, possiamo affermare che l’emigrazione dalla Calabria verso le altre regioni italiane è stata pari a 35.116 unità, con una media annua di oltre 7.000 emigrati[65]; mentre, per il saldo migratorio estero, la tendenza, durante lo stesso periodo si presenta positivo, con una tendenza media di circa 4.000 persone all’anno[66].
In sintesi, possiamo affermare che, dal 1876[67] al 2010, il totale degli emigrati calabresi verso l’estero e verso le altre regioni italiane, è stato di 2.015.000 persone, cifra superiore alla popolazione residente nella regione, nell’ultimo anno di riferimento (2.011.466).
In questo contesto, negli ultimi sessant’anni la popolazione calabrese si è mantenuta praticamente stabile, intorno ai 2 milioni di abitanti, in considerazione del fatto che, fino agli anni ’70, l’alto tasso migratorio compensava l’alto indice di natalità.
Successivamente, sia l’uno che l’altro hanno subito una flessione costante che ha mantenuto l’indice di popolazione praticamente stabile[68], anche se i dati provvisori, relativi al censimento Istat 2011, registrano un calo della popolazione pari al 2,7% (da 2.011.466 a 1.956.830 residenti).
Se approfondiamo l’analisi di alcuni fenomeni inerenti al processo emigratorio calabrese, possiamo constatare che se  la popolazione attiva calabrese in agricoltura rappresentava, nel 1951, il 63,9% e nel 1971 il 34,9%, ci si rende conto, immediatamente, dell’enorme numero di braccianti, contadini poveri, disoccupati e sottoccupati che ha abbandonato i campi e la propria regione per andare a lavorare in Svizzera, Germania, Belgio, Olanda o nel triangolo industriale, Genova-Torino-Milano e nel Nord dell’Italia.
I dati Istat confermano la consueta tendenza dei calabresi ad emigrare nel Piemonte, in Lombardia e nel Lazio a cui si sono aggiunte, negli ultimi anni, nuove regioni,  quali  l’Emilia Romagna e la Toscana.
A questo proposito, occorre sottolineare che, tra il 2000 ed il 2010, sono emigrati dalla Calabria 31.049 giovani, tra i 20 ei 40 anni, il numero più alto tra le regioni italiane, dopo la Sicilia (40.281).
Pertanto, negli ultimi anni si è verificato un importante fenomeno che contrasta, completamente, con la tradizionale immagine dell’emigrato calabrese.
I “nuovi” emigrati calabresi hanno studiato e cercano un lavoro rispondente al titolo di studio conseguito.
Bastano questi dati  per  affermare, senza timore di essere smentiti,  che neanche l’intervento straordinario e la politica regionale sono riusciti a frenare l’emigrazione dei calabresi che, oggi, coinvolge, in particolare, la manodopera intellettuale, senza alcuna prospettiva di trovare lavoro, in una regione con un tessuto produttivo sempre più debole e con un “sistema impresa” quasi inesistente.
Questo significa che l’emigrazione pre-universitaria viene incrementata da quella post-universitaria in cerca di occupazione con due conseguenze negative: trasferimento di risorse dal Sud al Centro Nord per il mantenimento dei figli a scuola, da parte delle famiglie meridionali e svuotamento del sistema territoriale e sociale delle risorse umane giovani e più qualificate.
Una delle cause principali di tutto questo è costituito da un sistema di transizione scuola-lavoro inadeguato e distorto, legato alle responsabilità delle Istituzioni che hanno sottovalutato e non considerato, adeguatamente, l’importanza strategica della complementarità e funzionalità tra formazione e/o specializzazione universitaria e dinamica del contesto produttivo e del sistema sociale.
Basti pensare che, in questi ultimi anni, secondo le indagini Istat, i laureati meridionali, a tre anni dalla laurea, occupati in regioni del Centro Nord, sono aumentati di oltre il 10%.
Una simile situazione sta provocando un invecchiamento sensibile della popolazione regionale
Secondo le statistiche più accreditate, nel 2030, una persona su dieci avrà più di 65 anni ed una su dieci più di 80 anni.
Soltanto un calabrese su tre avrà meno di 40 anni ed i giovani sotto i 17 anni scenderanno al 17%[69].
La figura del vecchio emigrato, analfabeta o quasi, disposto a fare i lavori più umili e faticosi, è completamente sparita, i nuovi emigrati sono in gran numero diplomati e laureati.
La Calabria e il Mezzogiorno perdono, così, le loro forze migliori e le famiglie, dopo aver speso cifre considerevoli in istruzione, sono costrette a vedere i loro figli partire, mentre la regione diventa sempre più povera di vitali energie intellettuali, indispensabili per il suo decollo economico.
“Se storicamente erano gli emigranti , giovani o meno giovani, che inviavano rimesse alle famiglie di appartenenza, oggi sono sempre più le famiglie di appartenenza che sostengono i giovani nella loro esperienza migratoria che è spesso svolta in condizioni di precarietà lavorativa e con redditi insufficienti, anche in considerazione dell’elevato costo della vita, in particolare per l’alloggio”.
“Va aggiunto che la debolezza del tessuto produttivo locale, la mancanza di politiche economiche adeguate, e la scarsissima spesa per le politiche sociali, a livello regionale, rende ancora più difficoltosa la gestione dei nuovi rischi sociali e la tutela di categorie deboli come gli anziani, i bambini ed i giovani, accentuando le difficoltà di formazione della famiglia e la crisi della natalità.
Il declino della popolazione calabrese, da questo punto di vista, dunque, appare allo stato inarrestabile.
Oltre a ciò, la Calabria, al pari del Sud, mostra una scarsissima capacità di attrazione dei flussi immigratori dall’estero, i quali laddove si sono consolidati hanno rappresentato un fattore di innovazione e di stimolo alla crescita economica” [70].
Una Calabria vecchia, quindi, con una economia povera, con risorse insufficienti per gestire un’assistenza sociale di ampia portata e con un sistema produttivo indebolito da una domanda espressa da una popolazione, prevalentemente, non giovane.
Si tratta di un circolo vizioso che confina sempre più la Regione verso una “frontiera di periferia” che rischia di sconvolgere tutte  le regole di un sistema civile.
Basta ricordare che, dalla ricostruzione ad oggi, le distorsioni, determinate da un’errata politica economica nazionale e regionale (che ha condizionato anche la programmazione comunitaria), hanno provocato una quasi totale dipendenza del sistema economico-produttivo regionale dalla politica pubblica e che, oggi,  contribuisce, per il 75%, alla produzione del reddito regionale.
In questo contesto, sulla base delle analisi e delle previsioni effettuate dai più importanti Istituti nazionali ed internazionali in materia di andamenti congiunturali (Eurostat, Istat, Svimez, Bankitalia, CCIA, Unioncamere, Censis, Enea, Cnel, ecc.), negli ultimi dodici anni, in Calabria si continua a registrare un forte rallentamento della crescita regionale, persino in controtendenza con le regioni del resto dell’Unione Europea, all’interno dell’Obiettivo Convergenza.
L’emigrazione, pertanto, diventerà, come è sempre stato finora, la grande valvola di sfogo di una regione destinata a diventare più povera e più vecchia se le Istituzioni, la Scuola, la Famiglia, l’intera Società Civile e la Chiesa non si stringono insieme in un “patto per la Calabria”, attraverso il quale l’etica, la legalità, le regole ed i valori comuni possano diventare gli strumenti per l’avvio di un processo di discontinuità, rispetto alla situazione attuale, caratterizzata da stagnazione ed immobilismo.

 
 
 


[1] Vincenzo Padula, “Il brigantaggio in Calabria, 1861/1864”, Padula Editore, 1981
[2] Luigi Miceli (Longobardi<CS>, 7 giugno 1924 – Roma, 30 dicembre 1906) fu deputato, senatore e,  cinque volte,  Ministro del Regno d’Italia. Egli fu tra gli organizzatori della spedizione dei Mille e fece anche parte, in qualità di maggiore dell’esercito, della Commissione, istituita nel dicembre 1861, per redigere l’ elenco dei Mille sbarcati a Marsala, l’11 maggio 1860 (composta quattordici alti militari: tre generali, quattro colonnelli, cinque maggiori e due capitani).
[3]Josè Borjes era nato in Catalogna, nel 1813. Figlio di un ufficiale che si era distinto nelle guerre anti-napoleoniche (poi fucilato durante la guerra civile scoppiata nel 1833), aveva militato come sottufficiale di carriera nelle forze partigiane carliste. Per la sua valentia, si era procurato il grado di comandante di brigata, nel 1840. Con il ritorno dei legittimisti, era stato costretto ad andare in esilio. Stabilitosi a Parigi, si era guadagnata la vita facendo il rilegatore. Era rientrato in Spagna durante le campagne del 1846-48 e nel 1855, per sostenere la causa di Isabella, con azioni di guerriglia. Nel 1860, si era recato a Roma per offrire i suoi servigi all’esercito pontificio. Sembra che, nell’inverno 1860-61, egli avesse compiuto azioni di spionaggio a Messina e in Calabria, per conto dei comitati borbonici di Marsiglia e di Roma.
 
[4] Legge 15 agosto 1863, n. 1409, “Procedura per la repressione del brigantaggio e dei camorristi nelle Province infette”.
[5] Liborio Romano (Patù (LE), 27 ottobre 1793 – Patù (LE), 17 luglio 1867) fu, prima, ministro dell’Interno e direttore di polizia sotto il Regno dei Borboni e, poi,  deputato del  Regno d’Italia dal 1861 al 1865.  
[6] Una canna, a seconda delle zone, corrispondeva a due metri o a due metri e mezzo lineari.
[7] Istat, Serie storica Tavola 2.10.1 – anni 1876-2005. Tutti i  dati si riferiscono al netto dei rimpatri. La stessa fonte evidenzia 181.411 rimpatri, durante il periodo 1905/1915.
[8] Ibidem
[9] Dino Taruffi - Leonello De Nobili - Cesare Lori –Pasquale Villari (Prefazione), “La questione agraria e l’emigrazione in Calabria”, G. Barbèra Firenze 1908 pp. 755–56. In proposito, anche Giuseppe Scalise, “L’emigrazione della Calabria: Saggio di economia sociale, Fierro - Napoli 1905 p. 28.
[10] Statistiche sul Mezzogiorno d’Italia 1861-1951 (pp. 9-13 e seguenti).
[11] Questo significa che  su 100 emigrati oltre oceano, dal 1880 al 1911, ben 77,5 rimasero lontani dalla loro patria, mentre su 100 lavoratori emigrati in Europa, solo 7,9 rimasero fuori dall’Italia.
[12] Il dato è al lordo dei 184.411 rimpatri per motivi di comparazione con le altre regioni. A questo proposito, occorre sottolineare che i rimpatri non sono stati registrati statisticamente, prima del 1905, secondo quanto riportato dall’archivio della statistica italiana  (ISTAT) Tavola 2.10.1 (anni 1876-2005). Per quanto riguarda l’emigrazione verso gli Stati Uniti, il 3 agosto del 1882, dopo 18 anni dall’approvazione del Congresso USA di “An Act to encourage immigration” (1864), viene votata un’altra legge che poneva dei limiti all’immigrazione (An act to regulate immigration). Nel 1885 si vota una legge che tende a limitare l’afflusso di manodopera a buon mercato. Da questo momento la vigilanza contro l’immigrazione diventa sempre più stretta,  ma si dice che i calabresi “vincessero” ogni resistenza.
[13] Archivio Storico Emigrazione Italiana (ASEI), pp. 133-135.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.
[17] Ibidem.
[18] Citiamo, tra gli altri,:
-           Grazia Dore, La democrazia italiana e l’emigrazione in America, Brescia 1964-            Cfr.
-           Manlio, Angelo D’Ambrosio, Il Mezzogiorno d’Italia e l’emigrazione negli Stati Uniti d’America, Roma 1924, pp. 61-97.
-           Giuseppe Scalise, op. cit. , pp. 44-62;
-           Dino Taruffi – Leonello De Nobili –Cesare Lori, op. cit., pp. 754-839.
[19]Pasquale Villari definisce l’emigrazione come una nemesi da scontare per avere sempre disatteso le aspirazioni dei contadini a causa dell’incapacità della democrazia italiana, successiva all’Unificazione, di affrontare e risolvere i problemi delle campagne, la cui prima forma di rivolta fu il brigantaggio. Comunque, noi non ci sentiamo di condividere in tutto la posizione del Villari, in quanto non ci sembra che il brigantaggio si possa interpretare soltanto come reazione al nuovo Stato italiano: manifestazioni di delinquenza comune non erano rare nell’azione dei briganti.
[20] Pietro Bastogi (politico toscano, finanziere e industriale) fu  Ministro delle Finanze del neonato Regno d’Italia durante il governo di Camillo Cavour e quello di Bettino Ricasoli. Vedasi, a questo proposito, “ L’emigrazione in Calabria”, G. Barbèra Firenze 1908 pp. 755–56.
 
[21] Francesco Saverio Nitti, Scritti sulla questione meridionale, vol. II, Bari 1958, p. 42.
[22] Ibidem, p. 98 e p.434.
[23] Nel Regno delle due Sicilie, ogni successione era esente da imposte e tasse; nel 1862, furono applicate, invece, aliquote oscillanti tra un minimo dello 0, 55% (donazioni e successioni in favore dei figli o degli ascendenti) ed un massimo dell’11% (donazioni e successioni in favore di estranei). Per il trasferimento di immobili a titolo oneroso, l’imposta passò dallo 0, 50 al 4%.
[24]L’insofferenza verso le tasse era molto acuta e non poteva essere diversamente, se si pensa che, in applicazione dell’art. 54, della legge 20.4.1871, per mancato pagamento d’imposte, la Calabria subì, tra il 1885 e il 1887, ben 11.773 espropriazioni di beni immobili. Di conseguenza, in rapporto alla popolazione, fu la regione più “espropriata” d’Italia. Le espropriazioni registrate nello stesso periodo e per lo stesso motivo, in tutto il Centro-Nord, ammontarono a 7.071. La sola Calabria, quindi, subì espropriazioni di gran lunga più numerose di quelle subite dall’Italia centrale e settentrionale messe insieme.
[25] Fracesco Barbagallo: Lavoro ed esodo nel Sud: 1861-1971, edizioni Guida Napoli, 1973.
[26] Raffaele Ciasca: “Il problema della terra”, Milano, 1921
[27] Su questo argomento, il periodico catanzarese “Il Pensiero Contemporaneo”, fondato dall’ intellettuale Antonio Renda, alla fine del 1800, trattò, in modo molto approfondito, la questione agraria calabrese, nel contesto di quella meridionale, anche attraverso un questionario, inviato dal giornale, ai maggiori esponenti della vita nazionale sui problemi del Meridione. I diversi contributi che pervennero da molti esperti ed intellettuali, furono raccolti  in un volume curato dallo stesso Renda “La Questione Meridionale. Inchiesta” (Remo Sandron Edizioni, Milano-Palermo 1900), con interventi, tra gli altri, di Cesare Lombroso, Arturo Loria, Gaetano Salvemini, Giovanni Marchesini, Scipio Sighele, Napoleone Colajanni, Vincenzo Giuffrida ed Ettore Cicchotti.
[28] Luigi Izzo, “Agricoltura e classi rurali in Calabria dall'Unità al fascismo”, Géneve, 1974, p.
68.
[29] Questa iniziativa nacque da un’inchiesta parlamentare “sulle condizioni della classe agricola e principalmente dai lavoratori della terra in Italia”, promossa dal deputato Agostino Bertani, nel 1872,  e poi “fusa” nell’“inchiesta agraria sulla condizioni della classe agricola in Italia”, presentata dall’allora Ministro dell’Agricoltura, Industria e Commercio Gaspare Finali ed approvata con la legge del 15 marzo 1877. A Stefano Jacini, deputato lombardo, venne dato l’incarico di presiedere una commissione costituita ad hoc, che concluse i suoi lavori il 29 aprile 1885. Questa inchiesta, pur mettendo in evidenza le incredibili condizioni del meridione, non riuscì a sensibilizzare la classe dirigente affinché venisse avviato  un processo di riduzione delle forti disparità tra Nord e Sud. Sull’argomento, vedasi anche: Alberto Caracciolo: “L’inchiesta agraria Jacini”, Piccola Biblioteca Einaudi, 1973.
[30] Archivio di Stato di Cosenza (ASCS), Affari Generali di Prefettura, cat. 13, b. 2. 157: “Corrispondenza per l’inchiesta Bertani”.
[31] Ibidem
[32] Ibidem
[33] Ibidem
[34] Massimo Petrocchi: “Le industrie del Regno di Napoli”, Napoli, Pironti, 1955
[35] Rosario Villari, Il Sud nella storia d’Italia, Laterza, 1963, pp. 341-48.
[36] Carlo Rodanò, Mezzogiorno e sviluppo economico, Bari 1954, pp. 79-102.
[37] Ibidem.
[38] Censimento del 1871, “Statistiche sul Mezzogiorno d’Italia 1861-1951” (SMI); Roma   1954, p. 769.
[39] ASCS, Affari Generali di Prefettura, cat. 15, b. 1188. Inchiesta igienico-sanitaria, 1885.
[40]ASCS, Affari Generali di Prefettura, cat.13, b. 2. 157, Corrispondenza per l’inchiesta Bertani.
[41] ASCS, Affari Generali di Prefettura, cat. 13, b. 2. 157, Corrispondenza per l’inchiesta Bertani.
[42] ASCS, Affari Generali di Prefettura, cat. 13, b. 2. 157, Corrispondenza per l’inchiesta Bertani.
[43]ASCS, Affari Generali di Prefettura, cat. 13, b. 2. 157, Corrispondenza per l’inchiesta Bertani.
[44] ASCS, Affari Generali di Prefettura, cat. 13, b. 2. 157, Corrispondenza per l’inchiesta Bertani.
[45] ASCS, Affari Generali di Prefettura, cat. 13, b. 2. 157, Corrispondenza per l’inchiesta Bertani.
[46] Lo stesso tragico problema delle alluvioni, delle frane e delle inondazioni era accettato, quasi, con rassegnazione e fatalismo da parte della gente; gli amministratori comunali, solo nei casi più gravi, sollecitavano qualche misura straordinaria o  lanciavano qualche “appello alla carità”.
[47] I Comizi Agrari, istituiti con Regio Decreto n. 3452 del 23 dicembre 1866, avevano l’obiettivo di  sostenere l’agricoltura, attraverso la diffusione di tecniche innovative.
[48] ASCS, Affari Generali di Prefettura, cat. 13, b. 2. 159. Lettera del Prefetto di Cosenza De Felice al Ministro dell’Agricoltura (2 agosto 1883), con cui informa che in provincia di Cosenza non esistono corporazioni di arti e mestieri.
[49] ASCS, Affari Generali di Prefettura, cat. 13, b. 2. 158. Lettera del Prefetto al Ministro dell’Agricoltura (7 gennaio 1879) con cui s’informa dell’esistenza di 8 società di Mutuo Soccorso; una a Paola, una a Rossano, presieduta da Domenico Palopoli, una a Corigliano, presieduta da Luigi Lettieri, una a Castrovillari, presieduta da V. Cappelli, una a Spezzano Albanese, presieduta da Pasquale Longo e due a Cosenza: la prima denominata Società degli artisti e l’altra, per soli muratori, presieduta da L. Valentini; infine, una a Cassano, presieduta da Antonio Castropini.
[50] Paolo Cinanni, “Emigrazione e imperialismo”, Roma, Editori Riuniti 1968, pp. 62-65.
[51] Secondo i dati Istat, durante il quinquennio 1876/80 erano emigrati oltreoceano 11.040 persone. In proposito, vedasi, anche, Commissariato dell’Emigrazione, «Annuario statistico dell’emigrazione italiana dal 1876 al 1925» (ASEI, Roma 1926 p. 26).
[52] Stefano Jacini, “I risultati dell’inchiesta agraria”, Piccola Biblioteca Einaudi, 1976; e Alberto Caracciolo, “L’inchiesta agraria Jacini”, Einaudi, 1973.
[53] «Atti della Giunta per l'inchiesta agraria e sulle condizioni della classe agricola», vol. IX, fasc. I, pp. 121-122. Cfr.; in proposito, anche Gaetano Cingari, “Storia della Calabria dall'Unità ad oggi”, Roma-Bari, 1982, p. 104.
[54]La Calabria, dall’Unità ad oggi, ha avuto ritmi di accrescimento demografico inferiori a quelli del Mezzogiorno.
[55] Dal 2001 al 2010, la popolazione rimane, praticamente, stabile se si considera che,  al 2010 essa è di 2.011.395 residenti. Il “massimo storico” viene raggiunto nel 1991, con 2.070.203 residenti.
[56] Svimez:”Primo rapporto sull’economia e la società in Calabria”, 2009, pag. 44.
[57] L’Istat non riporta i dati statistici relativi  al triennio 1943/45.
[58] Essa passa da 1.627.117 del 1921 al 2.044.287 al 1951.
[59] Svimez:”Primo rapporto sull’economia e la società in Calabria”, 2009, pag. 42
[60] Ibidem, pag. 42
[61] Ibidem, pag. 39 e seguenti.
[62] Ad esempio, nel quindicennio successivo 1975/1989,  la media scende a 354 unità per anno.
[63] Ibidem, pag 43.
[64] Fonte: ISTAT – Serie Storiche – tavola 2.10.1 –“Espatri e rimpatri per regionale e ripartizione geografica – anni 1976/2005”.
[65] Fonte: ISTAT.
[66] Fonte: “tuttitalia”- elaborazione dati Istat (tuttitalia.it).
[67] Data dalla quale si hanno informazioni statistiche certe.
[68] Negli ultimi anni, si sta verificando un altissimo tasso di pendolarismo, in particolare, al di fuori del territorio regionale (studenti, lavoratori,  professionisti, ecc.), che, pur mantenendo la propria residenza in Calabria, vivono, praticamente fuori regione, con rientri temporanei.
[69] Svimez:”Primo rapporto sull’economia e la società in Calabria”, 2009, pag. 39 e seguenti.
[70]Svimez:”Primo rapporto sull’economia e la società in Calabria”, 2009, pag. 39 ; in proposito anche Enrico Pugliese, “L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne”, Collana “Universale Paperbachs il Mulino”, 2006.

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