Il modello industriale in Calabria degli anni ’70 è stato uno strumento politico-clientelare senza precedenti nella storia del sottosviluppo meridionale; una beffa per i calabresi ed un’occasione irripetibile per imprenditori opportunisti e “mazzettari” e per politici che hanno fatto dei finanziamenti a pioggia la loro fortuna, a livello elettorale e personale. Un contesto fertile anche per la mafia che, non solo si è arricchita in modo esponenziale, ma ha potuto allargare il suo potere a dismisura, a detrimento del territorio e dell’ambiente di una regione che, durante la vigenza dell’intervento straordinario e delle provvidenze comunitarie, ha subìto l’avvelenamento del mare, il degrado del territorio e l’insediamento di “sistemi industriali”, nella stragrande maggioranza, incompiuti, incompleti, nocivi e pericolosi. In conseguenza di ciò, la Calabria continua a caratterizzarsi come una delle regioni a bassissimo tasso di industrializzazione, con una presenza quasi totale di micro-aziende rivolte, in larga parte, alla domanda locale, poco propense a processi innovativi e con un basso livello di produttività. Questa debolezza va individuata nel contesto più generale del fallimento di cinquant’anni di politica industriale, a livello ordinario, straordinario e comunitario in tutto il Mezzogiorno d’Italia. Infatti, dopo i primi quindici anni dall’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, attraverso la quale erano stati programmati anche investimenti industriali di rilievo, si registrò un’inversione di tendenza, a causa della grande pressione del potentato economico del Nord d’Italia nei confronti del Governo nazionale, affinché gli investimenti industriali venissero concentrati nelle regioni settentrionali. Il Governo nazionale, dal canto suo, doveva soddisfare due esigenze: da un lato ridurre le tensioni ed i conflitti sociali provenienti dalle regioni del Mezzogiorno che gridavano alla mancata industrializzazione del Sud e, dall’altro, far fronte alle forti pressioni delle grandi imprese del Centro-Nord che chiedevano investimenti di varia natura, a compensazione della conseguenza della crisi che aveva investito i principali settori produttivi di quell’area. In questo contesto, lo sviluppo del Mezzogiorno venne affrontato su spinta di un’economia di mercato che non aveva nulla a che vedere con i reali problemi del Sud d’Italia, dove, il Governo nazionale “piazzava” impianti ad alta intensità di capitale, in settori fuori mercato, inquinanti, assolutamente inidonei sia a produrre reddito e creare occupazione, sia ad innescare incisivi effetti moltiplicatori nell’indotto. Per quanto riguarda, in particolare la Calabria, se si analizza il contesto industriale di quel periodo, si può facilmente constatare che nessun intervento organico ed equilibrato venne effettuato per dare sostegno innovativo ai rari impianti medio/grandi già esistenti sul territorio regionale e per migliorare l’organizzazione gestionale e commerciale delle micro-aziende manifatturiere (al di sotto dei 5 addetti) che costituivano oltre il 70% del totale. Non tener conto delle peculiarità e delle vocazioni naturali della regione significò indebolire, ulteriormente, persino rispetto allo stesso Mezzogiorno, il tessuto industriale calabrese, tant’è vero che, in soli dieci anni (1961/1971), si persero circa 10.000 posti di lavoro, pari al 25% del totale1 ed occorsero vent’anni per riportare la “situazione industriale” della Calabria allo stato in cui si trovava nel 1961. Tra l’altro, durante il ventennio 1971/1991, si registrò la più massiccia ondata di emigrazione del dopoguerra che vide partire dalla Calabria oltre 200.000 persone. Oggi, la situazione non è assolutamente migliorata; anzi dobbiamo registrare che è peggiorata se si considera che negli anni ’50/’60, 15 stabilimenti (anche se dispersi sul territorio e con produzioni molto differenziate) occupavano, ciascuno più di 100 addetti, mentre oggi sono quasi tutte sparite. Un semplice calcolo ci dice che ormai l’industria manifatturiera ha raggiunto livelli bassissimi, nel contesto del sistema produttivo regionale, poco innovativo e gracile, con il 94% composto da aziende al di sotto di 10 addetti, prevalentemente, nel comparto agro-alimentare ed edile2 , a scapito di quelli più avanzati, quali, ad esempio, la meccanica e l’elettronica, che hanno subito, in questi ultimi anni, una flessione di manodopera di oltre il 50%. Questa debolezza strutturale dell’economia industriale ha fatto sì che le imprese calabresi, essendo quasi tutte di piccolissime dimensioni (e con criticità di tipo organizzativo e manageriale, diseconomie esterne e disequilibri gestionali e finanziari), da un lato non riescono a soddisfare l’ingente offerta di lavoro e dall’altro si rivelano incapaci di esportare prodotti e servizi fuori regione, anche a causa, in molti casi, di una errata politica degli incentivi che ha privilegiato la pratica dei contributi a fondo perduto, rispetto a quella dei mutui a tasso agevolato o di altri possibili vantaggi, collegati al lavoro ed agli aspetti gestionali.
Le pochissime iniziative imprenditoriali registrate in questi anni sono delle eccezioni e delle casualità da attribuire ad un semplice mutamento nella composizione della domanda che ha stimolato qualche imprenditore a creare, in modo spontaneo, nuove imprese caratterizzate da attività di prima lavorazione e per soddisfare la domanda locale.
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