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La “Ricostruzione” e il “Piano Marshall” nel dualismo Nord/Sud in Italia
 
Anche se i quasi cento anni che vanno dall’Unità d’Italia alla Ricostruzione sono stati meno cruenti e sanguinari rispetto alle epoche precedenti, certamente alle regioni del Mezzogiorno non è stato consentito di attivare quegli strumenti necessari per avviare un proprio processo di crescita indipendente ed auto propulsivo.
Infatti, l’atteggiamento della classe dirigente politica ed economica del periodo post-bellico, nel contesto delle prospettive di sviluppo dell’intero Mezzogiorno (e della Calabria in particolare) si è rivelato sempre poco sensibile, rispetto ai reali bisogni dei territori e delle popolazioni locali.
Così avvenne subito dopo l’Unità d’Italia (si diceva: “ci prendiamo i territori meridionali e poi troveremo la soluzione per risolvere i loro problemi”), così avvenne con l’avvento della Repubblica (“ci prendiamo i soldi messi a disposizione dagli Stati Uniti, li destiniamo al Nord e poi decideremo che fare del Mezzogiorno”).
Pasquale Saraceno[1], nella “Intervista sulla Ricostruzione 1943- 53” (a cura di Lucio Villari)[2], sintetizza, con estrema chiarezza, come la mancanza di una cultura della pianificazione degli interventi, durante il periodo della ricostruzione, creò un’ulteriore emarginazione del Mezzogiorno rispetto al resto del Paese.
“Il Mezzogiorno”, sostiene Saraceno, “dipendeva, ancora più di oggi, da rifornimenti di beni fabbricati da industrie ubicate soprattutto nel triangolo industriale; si trattava sia di beni di consumo – ad esempio prodotti tessili – sia di prodotti occorrenti per la produzione agricola, per l’attività artigiana, per l’esercizio delle poche industrie esistenti”.

“La cessazione dei rifornimenti di tali materiali menomò e, in certi casi, paralizzò le attività produttive sopravvissute ai bombardamenti ed alle distruzioni tedesche”.
“Il Mezzogiorno”, continua Saraceno, “rimase escluso dalla rivitalizzazione della nostra economia, determinata dalla ripresa delle importazioni industriali”.
“In conclusione, la forte espansione produttiva del 1946, che avrebbe potuto attenuare il turbamento che la fine della guerra aveva lasciato nel Paese, probabilmente invece l’accentuò, a causa del tipo di distribuzione dei beni disponibili posto in atto dall’indirizzo liberistico impresso, senza molte remore, alla nostra politica economica”.
“Fu quindi una scelta che non si può condividere, ma che non mancava di qualche giustificazione, a parte i rilevantissimi interessi che essa ha molto favorito”[3].
Le risorse finanziarie messe a disposizione dagli Stati Uniti nei confronti del Governo italiano, pari a 1.204 milioni di dollari[4], vennero, perciò, distribuite senza tener conto dei problemi reali del Paese e delle loro possibili soluzioni, al di fuori di una logica di programmazione, in quanto, per la maggior parte degli attori della ricostruzione, la questione meridionale non era una priorità (e forse neanche un “problema”).
Altri Paesi europei svilupparono, invece, un approccio più ragionato e programmato nell’utilizzo delle risorse finanziarie.
La Gran Bretagna, con il suo “Libro bianco sull’occupazione”, la Francia con il suo “Piano sulla piena occupazione, l’aumento della produttività e l’innalzamento del tenore di vita della popolazione”, l’Olanda con il suo “Piano a lungo termine” e, persino la Germania sconfitta, con la sua “Politica programmata”, si cimentarono in un processo di ricostruzione globale a livello intersettoriale e territoriale, legando, in modo coordinato, le risorse agli obiettivi ed evitando di concentrare gli investimenti solo in determinate zone.
In Italia, ad una strategia programmata, si sostituì un puro calcolo di convenienza economica comparata : concentrare le risorse nelle tre regioni del triangolo industriale (Piemonte, Lombardia e Liguria), atteso che l’effetto moltiplicatore, in termini di maggior volume di produzione industriale e di maggiore occupazione, sarebbe stato molto più elevato rispetto al Mezzogiorno, dove la produzione industriale era quasi inesistente (specialmente dopo l’intervento tedesco che aveva, praticamente, distrutto i pochi impianti esistenti).
Se in un momento straordinario, il ragionamento poteva essere giustificato, non si poteva non immaginare che, in mancanza di interventi industriali immediati nel Sud, il divario con il Nord si sarebbe aggravato ulteriormente, rispetto al gap preesistente.
In effetti, “la guerra aveva già determinato un aumento del divario, in conseguenza del fatto che l’espansione dell’industria bellica non poteva che concentrarsi nel triangolo industriale; si pensi che, nel primo trimestre 1950, la produzione meccanica italiana era già del 50% superiore a quella prebellica; ed era un aumento in gran parte dovuto ad impianti sorti a causa della guerra, ma utilizzabili anche in tempo di pace”[5]
Quindi, il cosiddetto “Documento di piano” sulla ricostruzione italiana, si esaurì in un “elaborato tecnico” che strutturava le sue azioni operative in una strategia di sviluppo da paese pienamente industrializzato e, quindi, assolutamente inadatte alla situazione italiana di quel periodo.
D’altra parte, a Milano, a Torino e a Genova, si era convinti che le tre regioni motori del Nord Italia potessero governare e gestire uno sviluppo durevole nel quale la “questione meridionale” era risolvibile e modulabile con l’emigrazione, un’istruzione elementare e qualche opera pubblica.
Così, tutto avvenne in assenza di un approccio programmato globale che, invece, sarebbe stato necessario ed indispensabile per potere impostare delle strategie integrate a favore di una concreta politica meridionalista ed eliminare (o almeno, ridurre), lo stato di miseria, causata dalle guerre, specialmente nel Sud Italia.
La classe politica italiana, dopo il 26 aprile 1945, si sfilacciò in diverse “correnti di pensiero”, perdendo di vista l’obiettivo dell’unitarietà del sistema Italia e l’esigenza di un metodo comune nella risoluzione dei grandi problemi strutturali dell’intero Mezzogiorno.
Dal canto suo, la classe imprenditoriale del Nord impose “scelte di convenienza” per offrire al 38% della popolazione italiana che viveva nel Mezzogiorno, solo semilavorati, beni di consumo e pezzi di ricambio che potevano essere forniti, esclusivamente, dall’industria settentrionale rafforzatasi anche durante il periodo bellico, tramite, in particolare, il sostegno dell’IRI[6] che, attraverso l’EFIM[7], aveva assorbito tutte quelle aziende del Nord non in grado di rimborsare i prestiti ottenuti.
In questo contesto, lo Stato, oltre ad accollarsi i costi degli investimenti industriali effettuati al Nord, finanziò le nuove spese di urbanizzazione delle aree più ricche del Paese che ricevevano gli immigrati del Sud.
Questo processo distorto trovò terreno fertile nella politica economica tracciata da Luigi Einaudi[8], allora Governatore della Banca d’Italia, il quale, attraverso un’azione deflazionistica rigorosa (svalutazione della lira e mantenimento, a tutti i costi, del pareggio del bilancio statale), intendeva accelerare il processo d’integrazione del capitalismo italiano nel sistema internazionale; un obiettivo non condiviso dagli americani che avrebbero invece preferito un incremento delle esportazioni statunitensi verso l’Italia.
Naturalmente, questa strategia impose il rafforzamento della struttura produttiva industriale localizzata, quasi esclusivamente, al Nord.
Fu così che quasi tutti gli aiuti del Piano Marshall vennero convogliati nel triangolo industriale, congelando ogni possibilità di sviluppo del Mezzogiorno, già caratterizzato da una disoccupazione elevatissima, da scarsità di capitali e da un reddito pro capite pari a circa la metà di quello del Nord.




 
 

[1] Pasquale Saraceno (Morbegno , 14 giugno 1903/Roma, 13 maggio 1991) fu uno dei maggiori meridionalisti cattolici e fondatore della Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno), oltre che uno tra i più convinti sostenitori della istituzione della Cassa per il Mezzogiorno.
[2]  Pasquale Saraceno: “Intervista sulla Ricostruzione 1943-53”, a cura di Lucio Villari (1977 - Laterza Editore), pag. 72 e seguenti.
[3]Saraceno non negava la validità dell’economia di mercato, ma riteneva che questa non fosse, da sola, in grado di correggere e/o ridurre gli squilibri socio-economici tra le diverse aree del territorio nazionale.
[4] Il Governo americano mise a disposizione degli Stati coinvolti dal secondo conflitto mondiale (ad eccezione di quelli del Comecon) la somma di 12.731 milioni di dollari da utilizzare per acquisti da effettuare negli Stati Uniti. I Paesi interessati furono: Austria, Belgio e Lussemburgo, Danimarca, Francia, Germania Ovest, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Norvegia, Olanda, Portogallo, Regno Unito, Svezia, Svizzera, Turchia.
[5] Pasquale Saraceno, ibidem.
[6] L’I.R.I. (Istituto per la Ricostruzione Industriale) era un ente pubblico istituito, nel 1933, allo scopo di evitare il fallimento delle principali banche italiane (Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma) che si trovavano in enormi difficoltà, in conseguenza dei molteplici impegni finanziari assunti a sostegno dell’industria privata che, essendosi indebitata enormemente, non era più in grado di rimborsare i prestiti ottenuti, anche a causa della “grande” crisi economica e finanziaria a livello mondiale, iniziata nel 1929. Sebbene questo Istituto abbia avuto un ruolo determinante nella modernizzazione e nel rilancio dell’economia italiana, specialmente durante il decennio ‘50/’60, e sia diventato, negli anni ’80, uno dei più grandi gruppi industriali al mondo, con 1.000 società ed oltre 500.000 dipendenti, successivamente, per molteplici cause (tra le quali quella di essere al “servizio” della politica), accumulò delle enormi perdite a tal punto che il Governo italiano fu costretto, nel 2000, a metterlo in liquidazione. Nel 2002, l’IRI cessò, definitivamente, la sua attività e venne incorporata nella Fintecna (istituita nel 1993 e controllata al 100% dallo Stato.
[7] Dopo la seconda guerra mondiale, l’industria italiana di Stato iniziò un programma di ampliamento e di potenziamento delle proprie strutture. Nel 1947 venne costituito il F.I.M. (Fondo per il finanziamento dell’Industria Meccanica) per effettuare opera- zioni di salvataggio nei confronti d’imprese private che si trovavano in gravi difficoltà, essendo venute a mancare le commesse belliche (Breda, Reggiane, Isotta Fraschini). Nel 1962, il FIM si trasformò in EFIM (“Ente Partecipazioni e Finanziamento Industrie Manifatturiere”), attivo soprattutto nel Mezzogiorno, che divenne la terza finanziaria di proprietà dello stato italiano, collocata nel sistema delle “partecipazioni statali”. Esso diventò ben presto un ente polisettoriale (in particolare, in quello meccanico, del vetro, della carta e dell’alluminio), con l’obiettivo di “salvare” le imprese in crisi, per poi restituirle ai privati, superata la fase congiunturale. Questa “restituzione” si verificò molto raramente, in quanto le aziende acquisite si rivelavano poco competitive e quindi, non “appetibili” sul mercato. La conseguenza fu che “l’Ente spazzatura” (così venne chiamato) non fece altro che accumulare enormi debiti (fino a 18.000 miliardi) e venne messo in liquidazione nel 1992.
[8]Luigi Einaudi (Carrù , 29 marzo 1874/ Roma, 1961) economista, docente uni- versitario, giornalista e politico italiano, fu Governatore della Banca d’Italia durante il triennio 1945/48. Nel 1948, venne eletto Presidente della Repubblica (1948/1955), succedendo a Enrico De Nicola. Egli fu un forte propugnatore della libera concor- renza, ma venne criticato dai “Keynesiani” per la sua tendenza a praticare una strategia monetaria e di bilancio troppo restrittiva

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