Articoli e Interventi >> La follia di un “nuovo” Ministero per il Mezzogiorno
 
C’è stato un periodo, mi riferisco in particolare al decennio 1980/1990, durante il quale sembrava che la Calabria dovesse diventare una Tecnopoli in grado di pilotare la Ricerca e lo Sviluppo  dell’intero Mezzogiorno.
Naturalmente, l’attuale  generazione dei trentenni non può avere memoria storica delle “grandi cose” che i “fabbricatori d’idee” dell’epoca avevano messo in piedi per dare un “nuovo volto alla Calabria”: doveva partire il “Piano Telematica Calabria (TELCAL)” con i suoi mille miliardi di vecchie lire, venne costituito il CRAI (non sono i supermercati, ma un Centro di Ricerca), e poi CalPark (un “Parco Tecnologico), assistiti da istituti specializzati che avrebbero dovuto, “finalmente”, mettere a disposizione tutto il Know How necessario per rendere queste strutture, non solo operative, ma grandi strumenti di discontinuità rispetto al passato.
A latere, prolificò una serie impressionante di Organismi Statali che avrebbero dovuto, come disse qualcuno, “rivoltare la Calabria come un calzino”: il Bic Calabria (che non è la società che produce penne a sfera, ma un “Business Innovation Center”), la Finanziaria Meridionale (FIME) per il rafforzamento del sistema produttivo regionale, la FINAM per qualificare il settore agricolo e poi i “Progetti Speciali” sull’Agrumicoltura,  sulla Zootecnia, sulla Forestazione a Scopi Produttivi, sull’Agriturismo e, persino, quelli riguardante la valorizzazione degli Itinerari Turistico-culturali e lo sviluppo delle Aree Interne  della Regione. 
Si decise, inoltre, di creare, oltre agli Enti strumentali già esistenti (quali, ad esempio, i Consorzi di Bonifica l’ex Opera Sila e l’ex Afor), tutta una serie di partecipate che avrebbero dovuto completare il disegno “strategico” dello sviluppo strutturale della Calabria.
Essi avrebbero dovuto  rappresentare, da un lato l’ossatura portante di una  regione in grado di  far fronte alle criticità strutturali che l’attanagliavano e, dall’altro, gli strumenti indispensabili necessari per prevenire e difendere il territorio e la società regionale dalle calamità conseguenti a fattori antropici, ma in particolare agli  eventi catastrofici che, periodicamente, si scatenano in Calabria.
Purtroppo, oggi, questi Organismi sono tutti falliti e/o spariti, i Progetti Speciali non sono mai stati  realizzati, (forse qualcuno, in minima parte), gli Enti strumentali e le Partecipate si sono rivelati un covo di assunzioni irregolari e clientelari; tutti con bilanci sistematicamente passivi, ripianati annualmente con i fondi regionali:  un grande spreco di denaro pubblico, e basta.
Tutto questo è stato figlio delle perversioni dell’operato della Cassa per il Mezzogiorno che era nata, con ben altri obiettivi ed attraverso la quale, durante il quindicennio 1950/1965, stavano maturando le condizioni necessarie per ridurre il divario tra il Nord ed il Sud del Paese.
Poi, ci pensarono i sistemi di governo locali, specialmente dopo la costituzione delle Regioni, a trasformare l’intervento straordinario in un grande e potente strumento di clientelismo e di intreccio  tra politica ed affari.
Infatti, la classe politica meridionale si rese subito conto che, grazie al controllo dei fondi pubblici, era possibile tenere sotto pressione la popolazione che, abituata a considerare il rispetto dei  propri diritti come favore elargiti dalla classe dominante, ripagava (e ripaga ancora) i loro rappresentanti politici con il voto, subendo la corruzione e la concussione perpetrate, in particolare, da quegli apparati della pubblica amministrazione, asservita ad una parte di questo ceto politico
L’intervento straordinario rimase in vita per 43 anni, con un’assegnazione di risorse pubbliche all’intero Mezzogiorno pari a circa 150 mila miliardi di vecchie lire (oltre 340 miliardi di euro) per poi essere riattivato, con delle furbizie istituzionali, sotto forma di “Fondo per le aree sottoutilizzate” (FAS), ma sempre con l’obiettivo di polverizzare il denaro pubblico, non più nel solo Mezzogiorno, ma in tutta l’Italia.
Rinvio all’eccellente lavoro della Svimez (“150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud, 1861-2011) l’analisi accurata circa l’utilizzo delle risorse pubbliche straordinarie che, nate nello spirito  dell’aggiuntività, hanno avuto un carattere quasi esclusivamente sostitutivo dell’intervento ordinario e, quindi, prive di impatto significativo rispetto all’obiettivo prioritario della riduzione del divario tra Nord e Sud.
Stessa sorte hanno subito i fondi comunitari, il cui impatto sul sistema socio-economico regionale si è rivelato praticamente nullo.
L’Italia è stato e rimane l’unico Paese, tra i 28 che fanno parte dell’Unione Europea, ad avere una economia duale devastante che riduce, in modo, significativo, il livello di competitività dell’Italia a livello  internazionale.
Poiché esiste un’immensa bibliografia su questo argomento (alla quale rinviamo), ci limitiamo a sottolineare, in questa sede, che non ha alcun senso parlare di strategia di centralità di un territorio se, poi, queste non sono sentite come componenti importanti e funzionali della politica economica in senso lato e, quindi, non integrate in quest’ultima, specialmente in un sistema globale che pretende, ormai, una forte competitività dell’intero sistema produttivo di riferimento.
Il successo nella riduzione dei divari tra le due Germanie (Ovest ed Est), dopo la riunificazione del 1990, in soli 25 anni, è, infatti, da attribuire, in particolare, al concetto di solidarietà nazionale insito nella cultura tedesca che ha sempre gestito la politica strutturale regionale su tutto il territorio nazionale, come dimostra l’approvazione della legge sull’“Obiettivo Comune” (Gemeinschaftsaufgabe) del 1969.


In Italia, questo tipo di cultura dello sviluppo non è mai attecchito e chi consiglia il premier Renzi ad immaginare l’istituzione di un nuovo Ministero per il Mezzogiorno (nel contesto, anche, della fantasiosa creazione delle  macroregioni)  o vive al di fuori della realtà, o è un ignorante che non ha alcune conoscenza dei processi storici che hanno aggravato il divario tra Nord e Sud del Paese, a partire dalla Ricostruzione.
Un “nuovo” corso non si avvia, rispolverando il “vecchio”; i fallimenti degli ultimi sessanta anni ce lo dimostrano.
Papa Paolo VI diceva, con chiarezza, che tra le cause del sottosviluppo c'è una mancanza di sapienza, di riflessione, di pensiero in grado di operare una sintesi orientativa, per la quale si richiede « una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali ».
Ci scusiamo per le troppe “virgolette” usate in questo nostro intervento, ma non ne potevamo fare a meno.


Vincenzo Falcone
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