Articoli e Interventi >> Crisi globale e veloce ritmo dei mutamenti
 
Quando venne istituita la Convenzione europea nel 2001, per la predisposizione di un progetto di Trattato che adottasse una Costituzione per l’Europa, il Consiglio Europeo aveva approvato, un anno prima, la Strategia di Lisbona con l’obiettivo di far divenire, nel 2010, l’Europa l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo.
Era un periodo di grandi speranze e di grandi certezze che spingevano le Istituzioni Europee ad accelerare il processo di integrazione europea e l’allargamento dell’Unione a 27 Stati membri.

Purtroppo, tutti sappiamo come è andata a finire: il percorso si è rivelato particolarmente complesso e difficile a tal punto che praticamente tutto è stato rinviato al 2020, con l’elaborazione di un nuovo progetto, denominato appunto Europa 2020 “una strategia per una crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva”.
Tutti si sono resi conto, infatti,  che le realtà e le interdipendenze economiche si muovono più velocemente di quelle politiche e, quindi, il livello politico, deve essere in grado di dare risposte più determinate e coerenti  rispetto a questo veloce ritmo dei mutamenti che se incontrollato, continuerà a creare crisi economiche e finanziarie che saranno ulteriori cause di indebitamenti, di disoccupazione e di indebolimento della coesione sociale.

Ma quali sono stati i punti di debolezza che hanno impedito all’Unione Europea di fronteggiare questa crisi finanziaria internazionale?
E’ mancata, come ha sostenuto il Presidente della Commissione Europea Barroso,  una risposta  politica coordinata a livello europeo anche con le parti sociali e la società civile.
Per quanto mi riguarda, io credo che il vero problema è da ricercare ancora più a monte, nel senso gli interessi nazionalistici, specialmente da parte di alcuni governi, ancora contrastano con la difesa dell’interesse e dei valori comuni a livello dell’Unione.
Prevalgono molte volte resistenze corporative alle regole di concorrenza e non si riesce a sviluppare quelle riforme necessarie per far fronte alle grandi sfide con le quali oggi siamo confrontati.

E’ chiaro che la solidarietà, senza la reciprocità non funziona; e fino a quando esisterà il preconcetto che un’Europa integrata minaccerà l’indipendenza, la sovranità e l’identità dei suoi Stati membri, sarà molto facile per i “nazionalismi” e gli “interessi particolari” frenare la cooperazione e tutte le politiche comuni che rappresentano le condizioni e le fondamenta dell’integrazione europea.

E diventa molto difficile poter applicare a pieno il principio di sussidiarietà.
Il Prof. Scerbo ha parlato di un principio di sussidiarietà tradito.
Certamente in un contesto così complesso è difficile che il principio di sussidiarietà possa non essere tradito; però io sono fermamente convinto che il sogno degli Stati Uniti d’Europa non può e non deve essere abbandonato.
La sussidiarietà, per quanto mi riguarda è un principio che deve guidare il processo di integrazione europea, nel contesto del rispetto di un altro principio fondamentale e strategico che è quello della prossimità.

Sul principio di Sussidiarietà sono illuminanti le parole del Santo Padre Benedetto XVI quando dice che “La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l'autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione, in quanto assunzione di responsabilità. La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri. Riconoscendo, nella Reciprocità, l'intima costituzione dell'essere umano, la sussidiarietà è l'antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista”.

Certamente, come ho già detto,  l’Unione Europea sta  dimostrando tutta la sua vulnerabilità in presenza della grande crisi finanziaria che ha colpito l’intero pianeta.
Però tutto sappiamo che gli obiettivi che stanno alla base del processo di integrazione impongono tempi lunghi.
Basti pensare che oggigiorno, solo cinque Stati sui ventisette che fanno parte dell’Unione, sono articolati in regioni costituzionali (a potere legislativo), mentre tutti gli altri hanno articolazioni sub statuali differenti che ostacolano l’obiettivo della Convergenza.
Una coscienza europea non si ottiene dall’oggi al domani; ed anche se il percorso è, ancora lungo, per quanto mi riguarda  il processo è ormai irreversibile.
E’, infatti, inimmaginabile, un’inversione di tendenza rispetto a questa dinamica, forse meno veloce di quanto previsto, ma sicuramente, secondo me, inarrestabile.

Gli Stati Uniti d’Europa appartengono alle prossime generazioni, e il nostro dovere ed il nostro impegno sono, oggi, quelli di costruire un contenitore solido, in cui i giovani di oggi possano diventare, domani, i veri protagonisti della democrazia in Europa ed i custodi di un metodo comunitario efficace, legittimo, trasparente e coerente e fieri, un giorno della loro appartenenza ad un nuovo e grande stato federale.
Certamente, la globalizzazione ci insegna che da soli ormai non si va da nessuna parte; essendo essa un processo che coinvolge tutti i paesi del pianeta, ovviamente ai diversi gradi di sviluppo e sottosviluppo, e se inizialmente poteva far sognare un unico mercato mondiale, purtroppo, oggi ha creato, una velocizzazione incredibile nello spostamento del capitale finanziario, in particolare quello speculativo, che ha generato le crisi finanziarie che sono sotto gli occhi di tutti.
Si sostiene, giustamente, che la politica in generale è stata inconsistente rispetto alla bramosia della finanza e questo ha contribuito in modo marcato all’arrivo progressivo dell’attuale crisi economica.

Altri sostengono che la globalizzazione, come si è realizzata sinora, ha prodotto due fenomeni paradossalmente contraddittori: da un lato la ricchezza mondiale è cresciuta nettamente, ma dall’altro, la distribuzione di questa  ricchezza ha dato luogo ad una maggiore divaricazione tra paesi ricchi e paesi poveri, e, all’interno dei paesi ricchi, tra ceti privilegiati e ceti medi o non abbienti.
Basti pensare che, secondo alcuni analisti accreditati, un miliardo di lavoratori, sui tre che rientrano in totale nelle forze di lavoro nel globo, sono disoccupati o sotto-occupati.
Personalmente non mi  sarebbe dispiaciuto trovarmi in un convegno e ascoltare, oggi,  una relazione di Carlo Marx sulla globalizzazione.

Certamente, ci avrebbe detto che ciò che sta succedendo oggi, egli l’aveva già detto e scritto 165 anni fa, prevedendo sia l’impoverimento sempre più forte del proletariato con il passare del tempo, che una disuguale distribuzione della ricchezza; e ci avrebbe letto alcuni pezzi del Manifesto del Partito Comunista:
per esempio che la classe dominante, sfruttando il mercato mondiale, ha reso internazionale la produzione e il consumo di tutti i paesi……
Che, in luogo dell’antico isolamento locale e nazionale per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra ora un traffico universale, una universale dipendenza una dall’altra e…. diventa sempre più impossibile considerare l’ambito nazionale in modo chiuso e ristretto.
Che il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione,  con le comunicazioni  infinitamente agevolate, la classe dominante trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare”.

Questo per dire che se la globalizzazione è un fenomeno attuale,  essa rappresenta il terminale di un processo di cambiamento della società mondiale iniziato oltre due secoli fa e già conosciuto da molti.
Quello che non si era previsto, invece è stata l’improvvisa velocizzazione di questo processo negli ultimi venti anni che ha moltiplicato i fattori di crisi: il debito pubblico aumenta sempre più, il welfare ci garantisce sempre meno, l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno dovuto abbandonare il centro campo nello stadio dell’economia, quelli che si  arricchiscono sono in  pochi e la gente deve lavorare di più e guadagnare di meno.

D’altra parte, quello che è successo è sta succedendo in Europa è sotto gli occhi di tutti, probabilmente perché le Istituzioni europee non hanno  colto la storicità della crisi, ridimensionandola a semplice ciclo economico, ed i banchieri e finanzieri hanno preso il sopravvento come sostiene l’ex ministro dell’Economia Tremonti.
E la conseguenza è, come ci dicono, da un lato  Eurostat  e dell’altro i rapporti di alcuni Istituti specializzati a livello europeo, come l’Istituto di Ricerca del Credit Suisse (rapporto 2012), che, negli ultimi dieci anni, l’aumento del debito delle famiglie è cresciuto in termini aggregati dell’81%, e da metà 2011 a metà 2012, e cioè in un solo anno, la ricchezza aggregata delle famiglie a livello globale è diminuita del 5,2%, a causa delle incertezze economiche che hanno caratterizzato gli ultimi due anni, a cominciare dalla situazione precaria dell’Eurozona.

In un sistema globale in cui, si dice, che l’indebitamento è ormai oltre 10 volte superiore alle capacità reali di spesa, e facile immaginare quanto sia difficile per l’Unione Europea, affrontare questa crisi globale.

Tuttavia, bisogna riconoscere che molti  sforzi che si stanno facendo, a livello europeo, per ridurre le criticità che potrebbero diventare, altrimenti, dei fattori inibitori strutturali rispetto  al processo di integrazione europea.

A parte la strategia Europa 2020 e, da ultimo il trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla Governance nell’Unione Economica e monetaria, il cosiddetto Fiscal Compact, di cui ci parlerà dopo il Dr Basile, varie misure si stanno adottando, a livello europeo, per confermarci, come dice Barroso più audaci e ambiziosi e per conseguire un futuro sostenibile.

Mi riferisco, in particolare, ai nuovi fondi strutturali 2014/2020, con l'introduzione della nuova categoria di regioni in transizione e il principio della concentrazione tematica degli investimenti, alle innovazioni introdotte nell’utilizzo del Fondo Sociale Europeo, la riforma della Politica di Coesione,  alla Nuova Politica Agricola Comune 2014-2020, ai nuovi Programmi tematici comunitari per il periodo 2014-2020, quali "Salute per la crescita", "Consumatori" e "FISCUS", ed alle modifiche fondamentali che verranno introdotte nei settori più sensibili per la crescita, lasciano bene sperare.

Tutti sono ormai convinti che nessuno Stato membro dell’Unione può affrontare efficacemente le sfide mondiali se agisce da solo; ed il vero problema è la volontà politica di ogni singolo Stato di accettare l’idea di uno stretto coordinamento delle politiche economiche, in caso contrario si ritorna all’anno zero.
Non a caso il G20 di Città del Messico ha assunto quale parola chiave “l’impegno per la crescita”, esortando le maggiori economie mondiali a concentrare i propri obiettivi sulla ripresa ed i propri sforzi negli aggiustamenti dei deficit, gli Usa a disinnescare la bomba del 'fiscal cliff' e l'Europa a non indugiare nelle riforme anti-crisi.
Io sono, comunque,  convinto che, pur con grandi difficoltà, si uscirà dal tunnel per tre ordini di motivi: vivendo ormai in un sistema globale irreversibile,  gli eventi critici sono fattori ciclici e non possono presentarsi come una crisi strutturale permanente; perché è interesse della stessa speculazione finanziaria che ciò non avvenga; perché non c’è nessuno che potrebbe uscirne vincitore per sempre.
Ma questo mio ottimismo, per il momento, non aiuta a risolvere, velocemente e con facilità, i problemi immediati prodotti dalla crisi finanziaria internazionale.
Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, ci dice che il 26% delle famiglie italiane ha sperimentato un rapido peggioramento del proprio tenore di vita; che il 40% degli italiani consuma tutto ciò che guadagna, mentre il 31% è costretto a indebitarsi o erodere i risparmi degli anni passati, con una caduta del reddito delle famiglie pari al 9% in termini reali nell'ultimo quinquennio.
Famiglia Cristiana esorta il Presidente Monti a preoccuparsi  delle reali condizioni di vita delle famiglie italiane: sacrifici e tagli vanno “equamente” ripartiti sottolinea. I soldi, dice l’estensore della nota, “si recuperino dai ricchi patrimoni e dagli spropositati e indecenti costi della politica”.
Tutto questo è vero, ma non dobbiamo dimenticare che l’indebitamento italiano non è nato ieri; è nato con la ricostruzione, è cresciuto con l’assenza di una programmazione unitaria a livello nazionale, nel gioco di quella che io chiamo l’aggiuntività sostitutiva, ed è scoppiato  quando l’Italia, come tutti gli altri Stati dell’Unione, hanno preferito un Trattato Europeo ancora figlio dei nazionalismi e, quindi, debole nella sua funzione di motore anticrisi globale.
Certamente l’Italia che registra, tra l’altro,  il primato di 63 governi nazionali in 68 anni e cioè, dal 1945 al 2011, da sola non potrà risolvere i propri problemi, se non si dimostra più affidabile e credibile al livello di stabilità temporale e qualitativa del propriosistema di governo e se non riesce ad identificare gli strumenti più adeguati e propedeutici per affrontare la crisi scoppiata in questi ultimi anni, in un quadro coerente di cooperazione internazionale.

Prima di tutto bisogna riflettere bene (ma non per troppo tempo) su come ridurre la spesa ed in quali settori, come eliminare gli sprechi e gli extracosti, come attivare le economie di scala, come definire un costo standard nell’attuazione delle  grandi opere pubbliche che in Italia costano, a prezzo unitario, molto, molto di più che in Francia ed in Germania (1 km d’autostrada, oggi in Italia si aggira intorno a 40 milioni di euro: fonte ANAS), come accelerare i tempi di realizzazione delle opere e migliorare e la qualità degli interventi, come utilizzare gli indicatori di accessibilità per meglio valutare la coerenze degli investimenti pubblici rispetto ai reali bisogni del territorio, come dare corpo concretamente, ad una governance multilivello nei processo decisionali e gestionali delle risorse pubbliche e come evitare che il decentramento si trasformi in polverizzazione istituzionale e, quindi, in polverizzazione degli interventi a livello economico-produttivo ed infine, come deburocratizzare la Pubblica Amministrazione.
Faccio una grande fatica a vedere un’Italia “competitiva”  che opera  nel mondo con le sue uniche forze.

E questo vale ancora di più per una Regione come la Calabria, dove nulla si trasforma, a causa di una classe dirigente che non sa guardare oltre il breve periodo ed è carente circa la conoscenza dei processi in atto che ci circondano.
In questo contesto, mi piace ricordare il pensiero del Santo Padre Paolo VI che aveva individuato con chiarezza che tra le cause del sottosviluppo c'è una mancanza di sapienza, di riflessione, di pensiero in grado di operare una sintesi orientativa, per la quale si richiede « una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali ».

Io ho dei forti dubbi che la classe dirigente locale conosca realmente la Calabria e la sua storia.
Si sperava nella nuova classe politica figlia del regionalismo. ma basta analizzare gli oltre 40 anni di vita del’Istituto regionale, di cui 12 a livello di governatorati, per rendersi conto che ci troviamo di fronte ad una regione che non programma, non controlla, non legifera in modo organico, con grande  spreco di denaro pubblico ed un apparato amministrativo incapace di assistere gli organi istituzionali nei loro compiti di governo. Tanto per fare un esempio, nei primi trenta anni di regionalismo in Calabria,  e cioè dal 1070 al 200, si sino succeduti 21 governi con una media di vita istituzionale di 17 mesi ed uno stallo di governo, in termini di crisi che ha superato quasi i cinque anni; è come se avessimo saltato un’intera legislatura.
E poi, basta una semplice sguardo alla sua carta d’identità per avere coscienza della gravità dei problemi della Calabria e delle notevoli difficoltà per poterli risolvere; cito solo alcuni indicatori che caratterizzano lo “squilibrio” regionale:
  1. oltre il 75%  del reddito regionale prodotto in Calabria proviene dalla politica pubblica (vedi Rapporto Svimez Calabria del 2010);
  2. il reddito medio pro-capite continua ad attestarsi  al 50% di quello del Nord d’Italia (uno scarto quasi uguale a quello degli inizi del 1900);
  3. la disoccupazione giovanile e femminile è elevatissima ed associata ad un’ampia zona grigia della non attività;
  4. il lavoro nero registra la percentuale più alta d’Italia, oltre il 30%;
  5. la criminalità organizzata è  sempre più forte e  potente;
  6. l’indice di povertà  è tra i più alti d’Italia;
  7. le esportazioni praticamente non esistono;
  8. la possibilità di accesso al credito da parte delle famiglie e delle piccole imprese (9,3% nel Nord, contro 3,8% al Sud)è bassissima.
A questi indicatori di squilibrio, occorre aggiungere alcune criticità strutturali che caratterizzano il sistema regionale:
  1. se facciamo un rapido calcolo delle risorse messe a disposizione della Calabria con l’intervento straordinario, con le leggi speciali Calabria e con i fondi comunitari, potremmo parlare di una cifra che si aggira intorno ai 70.000 miliardi di vecchie lire (circa 36 miliardi di euro) al netto dell’attualizzazione dei costi sostenuti nel trend storico di questi ultimi 60 anni;
  2. l’impatto socio-economico degli interventi realizzati nell’ambito dei programmi comunitari riguardanti la Calabria (oltre 15 miliardi di euro negli ultimi trenta anni) è inconsistente dal punto di visto dello crescita strutturale;
  3. il  tessuto imprenditoriale si rivela sfilacciato, senza reti di servizi, senza filiera e sottodimensionato;
  4. manca la cultura dell’associazionismo e della cooperazione;
  5. l’emigrazione delle persone più istruite e più qualificate (in particolare giovani) diventa sempre più consistente, con conseguente impoverimento culturale  ed economico della regione;
  6. la qualità della vita è  molto più bassa rispetto agli standard europei;
  7. il sistema sanitario è inefficiente;
  8. la scuola non è adeguata alle esigenze formative necessarie per dare ai giovani laureati e diplomati quelle performance necessarie per inserirsi adeguatamente nel mercato del lavoro anche extra regionale (vedi Rapporto P.I.S.A. elaborato dell’OCSE);
  9. il sistema infrastrutturale è obsoleto ed inadeguato per attrarre in loco investimenti nazionali ed esteri e troppo debole rispetto alle esigenze della competitività nel quadro della globalizzazione;
  10. l’apparato amministrativo pubblico si dimostra sempre più inefficiente e non formato e/o specializzato rispetto ai mutamenti in corso;
  11. la spesa pubblica si rivela sempre più  improduttiva, a causa di carenza qualitativa di progettualità e di ritardi nella realizzazione degli interventi;
l’unico polo di sviluppo strategico regionale, quello di Gioia Tauro, rimane notevolmente sottoutilizzato, in un contesto di bassi investimenti nel settore della Logistica (1,4%, rispetto al 18% del Cento- Nord);

Bastano questi dati per dirci come la Calabria, con il suo sviluppo “frenato”, si trova impreparata ad affrontare le sfide della globalizzazione e si azzerano quei pochi tentativi di collegare la straordinarietà a qualsiasi prospettiva di ripresa del sistema regionale.
Il primo Rapporto Svimez sulla Calabria ci dice che, oggi, circa 170.000 famiglie (circa 450.000 persone)  vivono in povertà.
I giovani sono costretti a scappare da un sistema produttivo inesistente.
Si stima che in Calabria, nel 2030, una persona su dieci avrà più di 65 anni ed una su dieci più di 80 anni. Soltanto un calabrese su tre avrà meno di 40 anni ed i giovani sotto i 17 anni scenderanno al 17%.
Una Calabria vecchia, quindi,  con una economia povera, con risorse insufficienti per poter gestire un’assistenza sociale di ampia portata e con un sistema produttivo domestico indebolito da una domanda espressa da una popolazione prevalentemente non giovane.
Un’altra variabile inibitrice della crescita del sistema calabrese è costituito dalla sottocultura di governo che non ha prodotto alcun mutamento di fondo nel modo di gestire le attività economiche ed istituzionali, atteso che i localismi, l’incoerenza dei processi decisionali, la mancanza di rete tra i portatori potenziali della crescita (Istituzioni, Scuola, Famiglia e Società), l’instabilità delle risorse finanziarie, le caratteristiche imitative delle tecnologia di punta e la mancanza di innovazione, continuano a costituire la barriere contro la discontinuità.
Purtroppo, lo sviluppo “frenato” della Calabria viene ormai riconosciuto da tutte le fonti ufficiali che trattano lo stato di salute dei territori (Eurostat, Ocse, Istat, Svimez, Bankitalia, Camere di Commercio, Censis, Enea, Cnel, ecc.); la Calabria ha registrato un rallentamento nella crescita regionale, persino in controtendenza con le regioni del resto dell’Unione Europea, all’interno dell’Obiettivo I.
Basti pensare che, a livello di Pil, essa si colloca al 207° posto tra le 268 regioni d’Europa censite.
Le cose peggiorano se si considera l’indice  di potenzialità che cumula, in media quattro indicatori: benessere economico, occupabilità, innovazione/ricerca e istruzione; in questo caso, la Calabria, tra le 80 regioni dell’Obiettivo “Convergenza”, si colloca al 57° posto.
Infine,nell’ultimo documento della Commissione Europea sulla competitività delle regioni dell’ottobre 2010,  la Calabria è classificata al 222°  posto sulle 268 regioni europee
Anzi, se consideriamo i 15 Paesi pre-allargamento essa, in pratica,  si colloca al quart’ultimo posto sopra l’Anatolia Macedone, la Guiana Francese e l’isola di Reunion
Naturalmente, con questo non voglio dire che la Calabria è un deserto indistinto: non sono per natura un catastrofista; voglio solo sottolineare che senza la conoscenza e la comprensione dei mali antichi e storici della nostra regione, è impossibile potere individuare i percorsi più adeguati, per dare dinamismo positivo alla situazione di stallo ed immobilismo che si è creato fino ad ora.
Il Santo Padre, Benedetto XVI, nell’enciclica Caritas in Veritate, scriveva:
“la carità non esclude il sapere, anzi lo richiede, lo promuove e lo anima dall'interno.
Il sapere non è mai solo opera dell'intelligenza.
Il fare è cieco senza il sapere e il sapere è sterile senza l'amore.
Infatti, « colui che è animato da una vera carità è ingegnoso nello scoprire le cause della miseria, nel trovare i mezzi per combatterla, nel vincerla risolutamente »…

Purtroppo da noi non è stato e non è cosi.
Ecco perché, occorre reagire.
Io sono convinto che la società civile della nostra regione ha una grande responsabilità nella difesa  e nella crescita del sistema sociale ed economico della Calabria.
In molte regioni e territori dell’Unione Europea, la società civile organizzata è riuscita, infatti,  a diventare il “soggetto” privilegiato nel confronto con le istituzioni.
Ecco perché abbiamo tutti il dovere di impegnarci affinché le nuove generazioni crescano nella certezza di un futuro migliore, combattendo i favoritismi rispetto alle competenze, la furbizia rispetto alla legalità ed i piccoli privilegi a scapito dei diritti di ciascuno.
Tutti noi, oggi più che mai, dobbiamo proiettarci  verso una  nuova Calabria  che consenta a tutti i suoi cittadini di  riappropriarsi della loro identità, della loro cultura e del loro territorio, perché tutti noi abbiamo bisogno di una Calabria migliore, più sana, più competitiva e più protagonista.
E’, venuto, quindi, il momento che il sistema istituzionale, quello economico/produttivo e  quella finanziario/creditizio avviino quello che per me dovrebbe essere “il dialogo delle opportunità”, un patto per la Calabria per valorizzarne le sue specificità e peculiarità e per  fortificare, in particolare, quel tessuto produttivo delle microimprese locali che sono il vero motore dell’economia regionale ma che non hanno volto perché non sostenute ed assistite adeguatamente.
Per quanto mi riguarda, sono fermamente convinto che, seguendo questo percorso, la nostra regione potrebbe diventare un territorio molto competitivo, capace di produrre ricchezza anche fuori dall’assistenzialismo e dalle rimesse pubbliche.
Dobbiamo partire da quello che abbiamo,  rendendolo più attrattivo, attraverso tecnologie innovative e non imitative, ognuno esercitando il proprio ruolo con l’unico obiettivo di una crescita più sana e più equilibrata.
Attraverso una buona istruzione, un forte senso della famiglia e un orgoglio delle proprie radici, una chiesa ispiratrice e  delle istituzioni che  sappiano applicare, con etica ed onestà intellettuale, il grande principio di prossimità, si potrebbe realizzare quanto dice il Santo Padre Benedetto XVI; e cioè che  " il potere, in senso cristiano” non si impone mai, e rispetta sempre la nostra libertà" ma proprio perciò "ad ogni coscienza" si rende necessaria "una scelta", (Benedetto XVI, Angelus 22 novembre 2009).
E la nostra scelta deve essere quella di pretendere che tutti gli attori dello sviluppo lavorino insieme per definire un codice etico per un Nuova Calabria, per rafforzare il potenziale endogeno della nostra regione e per creare una nuova cultura dello sviluppo in cui solidarietà e reciprocità diventino la costante del nostro vivere comune.

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