Articoli e Interventi >> Il Piacere del dialetto
 
Introduzione
 
Io ho sempre creduto (sin da quando ero bambino) nella forza del dialetto perché il linguaggio orale ci rende più liberi di esprimere, con la massima coerenza ed appropriatezza, i nostri sentimenti e le nostre relazioni sociali, in una sintesi armonica di espressioni e parole che, molte volte, la lingua italiana parlata e scritta non riesce a rappresentare ed esprimere.
Il dialetto mi consente spaziare nel “mio io”: una sovranità assoluta del mio essere  che mi ha consentito di vivere e sentire la mia essenza di uomo, incondizionatamente sprigionato dalle tante griglie e sovrastrutture che oggi la società ci impone, molte volte a dispetto della spontaneità, della semplicità e della genuinità.

Non posso non ringraziare, a questo proposito, il mio insegnante della quinta elementare (1958), il Prof. Raffaele Barilà  che, con la sua lungimiranza, ci preparava da un lato a credere in un futuro migliore e, dall’altro,  ci faceva comprendere che la scuola e l’apprendimento dovevano essere vissuti, non come un momento staccato dal nostro modo di vivere, ma come integrazione armonica dell’ambiente in cui si sviluppa la nostra socialità.
Nelle ore in cui trattavamo la storia, egli ci portava fuori dal “sussidiario” e ci parlava anche della “Calabria Antica”, degli invasori, dei soprusi, delle tirannie, delle ingiustizie della Chiesa, delle emigrazioni, ecc. e del perché il dialetto calabrese era senza una matrice unitaria e con differenze anche sostanziali  tra comuni vicini.
Egli ci spiegava come, purtroppo, l’analfabetismo che caratterizzava la vita dei poveri e degli analfabeti (che era la quasi totalità) spingeva  la popolazione locale a rinchiudersi in un linguaggio orale che, con le sue peculiarità e specificità,  “comunicava” poco con l’esterno.

E questo fenomeno era dovuto, in particolare, non solo a causa delle continue invasioni subite dalla Calabria dai molti popoli stranieri che avevano costretto la gente del luogo a rifugiarsi verso l’entroterra della Regione, scarsissimo di comunicazioni viarie,  ma anche a causa di un  sistema feudale consolidatosi nelle “Calabrie”, a partire dall’anno mille (con l’avvento dei Normanni), che aveva indebolito ed imbarbarito la società locale sulla quale spadroneggiavano in modo assolutistico e senza alcun rispetto per i diritti fondamentali della persona. 
Col tempo, capii meglio come tutto questo aveva totalmente inibito la creazione di una società calabrese capace di organizzarsi e di rappresentare il vero capitale sociale della crescita e dell’unità regionale.
E fu da lì che partì il mio interesse per il dialetto, in particolare di quello del mio paese (Zagarise).

Tentai di analizzarne le struttura, di studiare la gestualità che accompagnavano il linguaggio e ricercare, per quanto possibile, le etimologia delle parole più ricorrenti, ma più “lontane”  da quelle stesse usate nella lingua italiana.
Impresa non solo ardua, ma praticamente impossibile, perché a mano a mano che tentavo di ricercare l’origine delle parole stesse, mi accorgevo che esse, molte volte erano la risultante di sovrapposizioni linguistiche di parole  appartenenti ai differenti popoli che avevano spadroneggiato sulle “Calabrie” e, perciò, alcune volte “orfane” del valore etimologico originale.
Un linguaggio, quindi,  senza grammatica, flessibile e mutevole che, se da un lato, si arricchiva di nuove parole, modi di dire ed espressioni importate dai popoli che si alternavano, nell’arco dei decenni e dei secoli, nel “governo” del territorio regionale, dall’altro perdeva radici e riferimenti, e si “infarciva” di continue variazioni e sovrapposizioni difficilmente ascrivibili a riferimenti linguistici unitari di base.

Questo, comunque, non ha indebolito il ruolo chiave del dialetto che ha rappresentato, da un lato il vero “collante” della coesione, della solidarietà nell’ambito delle società locali e, dall’altro, è stato lo strumento fondamentale  della diversità che ha caratterizzato i vari agglomerati urbani; diversità, intesa non  come conservazione e freno del dinamismo linguistico, ma come ricchezza sociale e culturale, a garanzia dei valori comuni e delle tradizioni, e come sintesi armonica della forza della nostra identità.
Questo non significa restare nel passato, ma vivere il presente in una dimensione  armonica tra lingua e linguaggio, tra regole generali di contesto e di comunicazione globale e preservazione delle peculiarità e delle diversità che arricchiscono la forza positiva del nostro modo orale di comunicare.
Personalmente,  quando parlo o ascolto il dialetto sono più a mio agio, sono più di buon umore e mi sento più me stesso, perché riesco ad esprimermi con parole chiave che alcune volte sintetizzano da sole interi concetti e pensieri complessi.
Perché  una frase in dialetto ci diverte molto di più rispetto alla stessa frase detta in italiano?
Perché ci appartiene come essenza, la acquisiamo come valore comune, come armonia della socialità, ci fa sentire, come dicevo prima, più noi stessi.
Io sono convinto che chi ricorda il passato per salvaguardarne le specificità positive, utilizzandole come avanguardie del presente e del futuro, dà il suo contributo, da protagonista attivo alla crescita del sistema sociale a cui appartiene,  ma chi dimentica il passato e le tradizioni della società a cui è appartenuto  è una persona che “muore”.
Il dialetto ha la forza di proiettare all’interno ed all’esterno del proprio essere, la verità del proprio io .
Le tre commedie che vengono raccolte nel mio volume “Tandu” hanno raccontato storie di vita vissuta in un piccolo comune, dove tutti si conoscono e dove i principi della solidarietà e della reciprocità sono parte integrante del comportamento e dei valori della popolazione locale.

Mentre scrivevo  queste piccole commedie mi rendevo sempre più conto di come il linguaggio dialettale era l’unico modo per sintetizzare concetti e ed espressioni  che, nella lingua italiana, avrebbero avuto bisogno di periodi molto più ampi e che, comunque si sarebbero rivelati  meno efficaci, rispetto a ciò che si voleva rappresentare.
Esse hanno avuto una sola pretesa: ricordare la semplicità  e la genuinità del vivere comune, la generosità della gente, il rispetto per gli altri e la preservazione di “come eravamo”, in un periodo molto complesso della storia del Mezzogiorno,  in cui  la società meridionale cercava di uscire fuori dal tunnel della povertà e della miseria, con ottimismo e con la speranza di vedere crescere meglio i propri figli e le future generazioni.
Siamo alla fine degli anni ’50, periodo di avvio della ricostruzione in Italia, ma periodo anche di emigrazione di vastissime dimensioni, a livello nazionale, europeo e transoceanico.

Sono i ricordi di un ragazzo intorno ai dieci anni, che trascorre la sua giovinezza, senza inibizioni  ed in piena libertà.
Quello che ci animava di più, in quel periodo era la curiosità per il nuovo che si affacciava, a tutti  i livelli, in una Regione depressa come la Calabria, in cui il bassissimo livello della qualità della vita, il sistema infrastrutturale particolarmente carente e la disoccupazione elevatissima, facevano da sfondo alla grande povertà che, comunque, veniva vissuta con dignità, con determinazione, con caparbietà e con l’allegria di chi si sa accontentare di quello “che passa il convento”; anche se bisognava “guadagnarci la pagnotta”  con grandi sacrifici e lavoro duro, si viveva con ottimismo ed allegria.
Naturalmente, i nomi dei personaggi sono quasi tutti inventati, mentre gli avvenimenti  sono “spaccati di vita vissuta”,  “paralleli” alla realtà, nel senso che non sono tutti veri, ma “approssimati” a fatti realmente accaduti.
Forse i più giovani, che non hanno memoria storica di quel periodo, si divertiranno di meno perché, forse avranno più difficoltà a comprendere la vera essenza delle espressioni, degli intercalari, dei modi di dire, probabilmente per loro obsoleti, ma sono sicuro che quelli della mia età e delle generazioni precedenti alla mia, verranno coinvolti nel ricordare episodi della loro vita simili a quelli rappresentati in queste commedie che hanno solo la pretesa di farci sentire di nuovo bambini e di proiettarci nuovamente in un passato non recente ( oltre cinquant’anni), con quei suoi odori e quei suoi sapori che ormai sono impressi  nella nostra memoria, e tali rimarranno fino a quando ci sarà consentito di vivere.

Oggi, tante cose sono cambiate, ma ci rimane il cruccio e la rabbia di dover ancora vedere i nostri figli, anche se laureati e diplomati, costretti ad emigrare perché in questa Regione manca il lavoro, anche quello intellettuale e la cultura della legalità.
Tuttavia, noi siamo convinti che non bisogna mai  perdere quel sentimento di ottimismo e di determinazione  per consentire a ciascuno di noi  di rafforzare, anche nei periodi più difficili della nostra esistenza,  le fondamenta ed i pilastri di un benessere sociale migliore.


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